Nel corso della campagna elettorale, Donald Trump ha agitato lo spettro della “guerra al crimine”, arrivando persino a ipotizzare la deportazione dei criminali autoctoni – e non solo stranieri – nelle carceri di El Salvador.
Eppure, quando l’attenzione si sposta su capi di Stato che, secondo la documentazione internazionale, si sono macchiati di crimini efferati e hanno oppresso le libertà dei popoli, la dialettica trumpiana muta radicalmente: da punitiva si fa indulgente.
Il sodalizio con Putin e l’approccio con Zelensky
Con Donald Trump vi è una sola certezza: zero certezze. L’ambiguità che contraddistingue la sua politica estera rende complessa qualsiasi analisi, poiché anche le forme, i gesti e le espressioni formali che accompagnano le relazioni internazionali diventano con lui punti interrogativi, talvolta contraddittori.
Un dato, tuttavia, appare evidente: il nuovo atteggiamento nei confronti di Vladimir Putin. Se da un lato Trump non ha esitato, almeno sul piano retorico, a evocare l’uso della forza bruta e persino di armamenti non convenzionali per dissuadere il Cremlino dal proseguire la sua guerra contro Kiev, dall’altro lato non si può ignorare il cambio della sua postura nei confronti del leader russo. Significativo, in tal senso, fu l’incontro in Alaska, durante il quale emerse, se non una piena intesa, quantomeno una consonanza politica: un linguaggio affine che traspariva persino dalle informalità. Non è un caso che lo stesso Trump abbia più volte chiamato il presidente della Federazione Russa semplicemente “Vladimir”, un appellativo che agli occhi del mondo ha contribuito a legittimare la figura di un leader su cui pende ancora un mandato della Corte penale internazionale.
Ancor prima degli eventi di Anchorage, va ricordato l’incontro del 28 febbraio 2025 tra Trump e Volodymyr Zelensky, trasmesso in diretta dallo Studio Ovale. In quell’occasione, l’attacco frontale in mondovisione contro il presidente ucraino segnò una svolta nell’atteggiamento americano verso la guerra in Ucraina, e al contempo il primo passo di un nuovo equilibrio: un portamento che, anche indirettamente, apriva le porte a una nuova interlocuzione con Mosca.
Il caso Lukashenko e la liberazione dei prigionieri
Di Aljaksandr Lukašėnka, invece, non vi è molto da aggiungere: dal 20 luglio 1994 governa ininterrottamente la Bielorussia, forte del sostegno e della complicità del suo “migliore amico” Vladimir Putin. Le elezioni presidenziali del 2025, per il settimo mandato, non hanno ricevuto l’approvazione della comunità internazionale, giudicate prive di legittimità.
Per un Paese che da tempo si configura come “appendice” della Federazione Russa – fino a concedere il proprio territorio per il passaggio delle truppe moscovite dirette in Ucraina – questo risulta relativamente normale.
Ma se da una parte la Gran Bretagna e l’Unione europea hanno proseguito con fermezza nel processo di delegittimazione del leader bielorusso, etichettato come “burattino” del Cremlino, l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha mutato tale visione. Le chiamate tra i due, segnate da toni cordiali e accomodanti, hanno inaugurato una stagione diplomatica.
Washington ha persino revocato alcune sanzioni nei confronti di Minsk, tra cui quelle che impedivano alla compagnia aerea di bandiera di operare sul territorio statunitense. In cambio, il presidente bielorusso ha disposto lo scarceramento di 52 prigionieri politici: un segnale di apertura, seppur minimo, verso l’Occidente – meglio, verso gli USA di Trump.
Eppure, a dispetto di questi nuovi contatti, Lukashenko non ha mai smesso di definirsi il più fedele alleato di Putin. La sua partecipazione diretta alle esercitazioni militari congiunte tenutesi nel 2025 lo conferma.
Si ha l’impressione che Minsk voglia accreditarsi, almeno in parte, come interlocutore disponibile e legittimo anche per l’Occidente, pur restando saldamente ancorato nella sfera d’influenza russa.
In conclusione
Quale sia, in fondo, la strategia di Donald Trump non è ancora del tutto chiaro. Verosimilmente, il Tycoon non intende precludersi alcuna opportunità di dialogo con qualsiasi attore internazionale, a prescindere dal grado di legittimità o dall’etica che la comunità internazionale gli riconosce.
Parlare con tutti sembra essere divenuta la priorità della nuova amministrazione, anche a costo di sacrificare principi un tempo considerati intangibili, come il celebre “nothing about Ukraine without Ukraine”.
20250370