Quello delle morti nelle carceri italiane è un problema sistematico che sembra quasi invisibile.
I dati contenuti nel report del Garante dei detenuti sono allarmanti e richiamano alla necessità di agire in fretta. Nel frattempo, i detenuti continuano a morire.
DATI
Dal primo gennaio ad oggi i suicidi nelle carceri italiane sono stati 68.
Per capire la portata di questo numero basta guardare i dati forniti dal Garante delle persone private della libertà personale (GNPL): considerando il periodo 2021-2024, i morti per suicidio sono stati in totale 294. In quattro anni quasi 300 persone si sono tolte la vita negli istituti penitenziari del nostro Paese.
Significa una media di 73 decessi l’anno, cioè un suicidio ogni 5 giorni.
Un suicidio ogni 5 giorni.
Basterebbe questo per far capire la portata e l’urgenza di questo problema.
Proviamo però ad andare più a fondo.
Sempre secondo i dati del Garante, fino al mese scorso i suicidi nel 2025 erano stati 46; di questi 24 persone erano italiane e 22 erano straniere.
Ad un primo contatto sembra una sostanziale parità, ma il dato assume un significato completo solo se si considera che il numero di italiani e stranieri nei nostri istituti detentivi è molto diverso: gli stranieri rappresentano infatti solo il 31,56% della popolazione carceraria, eppure sono coinvolti in circa il 47,8% dei suicidi.
C’è poi un ultimo dato indicativo: analizzando i dati relativi ai 46 casi di suicidio summenzionati, ben 36, cioè oltre 3/4 del totale, sono avvenuti nelle sezioni a custodia chiusa, quelle cioè con misure detentive più severe e che ospitano generalmente detenuti con situazioni disciplinari più gravose.
Questo può essere determinato da vari fattori, che vanno dalle minori opportunità di socializzazione e di accesso a programmi di sostegno psicologico, alla concentrazione di persone detenute già vulnerabili dal punto di vista psichiatrico.
Questo dato racconta una pesante verità: dove le condizioni di detenzione sono più dure si muore di più.
UN PROBLEMA CHE RICHIEDE INTERVENTI IMMEDIATI
È stato lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a richiamare l’attenzione sul tema, lo scorso 30 giugno al Quirinale davanti a una rappresentanza della polizia penitenziaria.
Secondo il Presidente “i suicidi nelle carceri sono solo l’espressione più evidente e tragica delle disumane e spesso non dignitose condizioni del sistema carcerario”, facendo poi espresso riferimento al problema del sovraffollamento.
E quindi cosa fare? Il mondo dell’associazionismo pullula di proposte, pratiche e concrete, che si possono riassumere in un minore ricorso alla carcerazione preventiva, in misure alternative al carcere per coloro che devono scontare pene brevi, nel prevedere sanzioni sostitutive e misure di comunità, ma soprattutto in investimenti sulla rieducazione, sul recupero e sul reinserimento sociale dei detenuti, nel pieno rispetto dei valori costituzionali.
Anche il Governo ha provato ad intervenire, seppur indirettamente, sul problema.
A metà agosto il Consiglio dei Ministri ha infatti presentato nuove proposte volte a ridurre il sovraffollamento carcerario, considerato una concausa del problema dei suicidi.
Tra le proposte pervenute finora, la costruzione di nuove carceri e l’ampliamento di quelli attuali, ma anche programmi di detenzione «differenziata» per il recupero dei detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti ed un incremento dei colloqui telefonici, da 4 a 6 al mese.
Verso un luogo di rinnovo e rinascita personale
È vero che ogni suicidio è diverso, che ogni persona è diversa, ma tutti questi casi sono frutto di forti sofferenze, anche profonde, che purtroppo colpiscono queste persone.
Ecco, queste sofferenze il carcere le deve saper intercettare, le deve capire, le deve poter curare.
Il carcere, nell’immaginario collettivo, sembra quasi stia tendendo ai manicomi di una volta, cioè luoghi in cui nascondere i problemi della società.
Il carcere non deve essere un luogo di epurazione della società, ma un luogo di rinnovo, di rinascita personale. Del resto è la stessa Costituzione a prevederlo, all’articolo 27: ‘’le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’’.
Il carcere poi deve dare speranza: speranza che fuori ci siano nuove opportunità, speranza di poter essere ascoltati, speranza di potersi ricostruire una vita.
Questo può accadere però solo se c’è un sistema sociale accogliente, se ci sono percorsi validi al termine della pena, se ci sono percorsi di riabilitazione efficienti, se non c’è stigma sociale verso chi è stato detenuto.
È un percorso lungo, faticoso, ma necessario.
Solo così, forse, si potrà mettere un punto a questo problema.
20250404