I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) sono strutture di detenzione amministrativa dove vengono trattenuti cittadini extracomunitari privi di regolare permesso di soggiorno o in attesa dell’esecuzione di provvedimenti di espulsione (articolo 14, D.Lgs. 286/1998) e, quindi, sottoposti a un regime di privazione della libertà personale.
Oggi, i CPR si configurano come veri e propri non-luoghi della detenzione in Italia. Isolati e distanti dalla vista pubblica, sembrano rappresentare un tentativo di occultamento di reiterate violazioni dei diritti umani. Il regime opaco di detenzione amministrativa che li caratterizza solleva non solo problematiche umanitarie ben documentate, ma anche rilevanti interrogativi di natura giuridica.
Catacombe dello Stato
“Si je meurs jaimerais quon rianvoi mon corps en Afrique, ma mère serait ravie(…) les militaire Italien ne conait rien saufe largent, mon Afrique me manque beaucoup et ma mère aussi. Il ne faut que pleure a cause de moi, paix á mon âme que je repose en paix”.“Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) i militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. Mi manca molto la mia Africa e anche mia madre. Non c’è bisogno di piangere su di me, la pace sia con la mia anima e che io possa riposare in pace”.
Sono le ultime parole di Ousmane Sylla, un giovane di 22 anni di origine guineana che, nella mattina di domenica 4 febbraio, tra le 5 e le 6, all’interno del CPR di Ponte Galeria, a Roma, in preda alla disperazione e a un supplizio esistenziale dovuto alla sua condizione di non-vita, decide di scriverle sulle mura della sua cella, prima di togliersi la vita. Gli agenti lo troveranno poco dopo, impiccato alla grata della finestra con le lenzuola.
Ousmane era arrivato in Sicilia il 28 ottobre dell’anno precedente, sopravvivendo alle intemperie del Mediterraneo. Nella speranza di trovare un futuro migliore, aveva fatto domanda per la protezione internazionale, ma la richiesta venne respinta dalle autorità italiane e fu emesso un decreto di espulsione dalla questura. È da quel momento che iniziò il suo inferno in Italia. Recluso inizialmente nel CPR di Milo, in provincia di Trapani, un luogo che, insieme a quello di Pian del Lago, è da anni oggetto di denunce da parte di associazioni e attivisti per le terribili condizioni in cui i migranti sono costretti a vivere. Successivamente fu trasferito al CPR di Ponte Galeria, a Roma. Nella capitale di un Paese libero e democratico, Ousmane trovò la morte. L’unica via d’uscita che vide per sfuggire a una condizione di vita inumana e degradante. Il giovane guineano non era stato nemmeno messo nelle condizioni di nominare un avvocato per cercare giustizia, raccontare la sua storia o denunciare i crimini commessi all’interno di quelle strutture. Yasmine Accardo, giornalista e attivista della campagna LasciateCIEntrare, afferma che le istituzioni e le autorità del CPR “terrorizzano chi si trova all’interno, che non solo è ingiustamente trattenuto, ma è anche sottoposto alla percezione di un tempo infinito in un luogo di ingiustizia”.
Ousmane Sylla non è solo un numero. La sua storia, però, è simile a molte altre: racconti di disperazione e angoscia che si consumano all’interno di luoghi costosi, inefficienti e simbolo della soppressione di ogni forma di autodeterminazione individuale, oltre che della sistematica violazione dei diritti umani. Storie che, alla fine, raccontano di morte.
Nel mese di ottobre 2022, un altro episodio tragico vide coinvolto un 27enne gambiano, detenuto anch’egli nel CPR di Ponte Galeria. In preda alla disperazione, ingoiò un pezzo di vetro, probabilmente proveniente da una bottiglia trovata sul pavimento. Con la bocca sanguinante e tormentato dal dolore, non venne soccorso da nessun membro del personale del centro. Questo emerge dalle testimonianze raccolte dalla CILD (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili), una ONG che tutela e promuove le libertà civili garantite dalla Costituzione italiana e dal diritto internazionale, denunciando gli abusi che si verificano all’interno delle nostre istituzioni.
Storie che difficilmente trapelano dalle mura di queste strutture, ma che Gabriella Stramaccioni, garante per i detenuti di Roma, ha raccontato al giornalista Nello Trocchia: “Era entrato alla fine di settembre, ma il medico incaricato di valutare le incompatibilità non lo aveva ancora visitato. Quel centro va chiuso immediatamente”, afferma la Stramaccioni.
Quello di Roma è solo uno dei tanti centri dove diritti e dignità umana vengono sistematicamente violati. In Italia ci sono 10 CPR, con un totale di circa 1.300 detenuti distribuiti tra Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Macomer (Nuoro), Milano, Palazzo San Gervasio (Potenza), Roma, Torino e Trapani. In tutti questi centri si denunciano le condizioni di vita degradanti a cui i detenuti sono sottoposti.
I CPR sono luoghi dove ogni forma di comunicazione con l’esterno è categoricamente vietata, e le condizioni igienico-sanitarie, secondo innumerevoli testimonianze, sono estremamente precarie. In aggiunta, l’accesso alle cure mediche è quasi inesistente. Un’inchiesta di Lorenzo Figoni ha documentato come, all’interno di questi centri, vengano somministrati grandi quantitativi di psicofarmaci per sedare eventuali proteste o rivolte da parte dei detenuti, portandoli spesso a una condizione di dipendenza. Quando le procedure di rimpatrio falliscono o non vengono completate entro il limite di giorni, gli ex detenuti si ritrovano abbandonati per strada, preda dei propri demoni: traumi, dipendenza dai farmaci, brutalità e minacce. L’esasperazione, in molti casi, porta i migranti ad atti di autolesionismo, fino a togliersi la vita.
Un’altra questione grave è che i detenuti non vengono adeguatamente informati sui loro diritti e sulle possibilità di difendersi legalmente per evitare il martirio del CPR. In tutti i centri i cellulari vengono sequestrati, anche se non esiste una norma che preveda esplicitamente questa procedura. Ciò priva i migranti della possibilità di raccogliere i documenti necessari per far valere i loro diritti.
I problemi della detenzione amministrativa
Nel 1998 la legge Turco-Napolitano istituì i CPT, Centri di Permanenza Temporanea, poi denominati dalla legge Bossi-Fini in CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, fino al noto acronimo di CPR, regolamentati dalla legge Minniti-Orlando del 2017. Nella prima formula, la detenzione amministrativa era fissata a 30 giorni, fino ad arrivare, oggi, ad un massimo di 180 attraverso l’articolo 2 del Decreto Sicurezza. Evidentemente, la gestione dei flussi migratori e la sicurezza dei migranti rappresentano temi non caldi per i partiti, sia di destra che di sinistra.
Dal 1998 in poi, nel nostro Paese, si è diffuso un ‘diritto speciale’ che sanziona la violazione di una norma amministrativa – l’ingresso o il soggiorno irregolare – con una forma di detenzione decisa discrezionalmente dalle autorità di pubblica sicurezza e che, spesso, supera i limiti stabiliti dall’articolo 13 della Costituzione. In assenza di reato, la sola presenza irregolare sul suolo italiano è punita con una misura amministrativa che prevede una detenzione simile a quella del domicilio obbligato ma che, in pratica, non si differenzia molto dalle classiche misure di limitazione della libertà personale previste dalla legge. Tale provvedimento viene adottato nei confronti di chiunque si trovi in modo irregolare, quindi come clandestino, sul territorio nazionale, ignorando la storia e le vicende personali che hanno portato l’individuo alla violazione amministrativa in questione. Il soggetto è quindi accompagnato presso il centro per il rimpatrio e forzatamente trasferito alla frontiera per essere sottoposto alla procedura di allontanamento.
Già dal 1998, la suddetta legge ha sollevato numerose questioni di legittimità rispetto al diritto internazionale, in particolare in relazione alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che all’articolo 5 stabilisce le modalità con cui il legislatore interno deve adottare misure limitative della libertà personale “se si tratta dell’arresto o della detenzione legale di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o estradizione“.
Una misura che necessitava di una convalida giurisdizionale, requisito che l’Italia riuscì inizialmente a evitare; lacuna, questa, in seguito colmata con la sentenza 105/2001 della Corte Costituzionale. Nella stessa sentenza, i giudici della Consulta espressero un principio giuridico importante, mai smentito ma, allo stesso tempo, mai pienamente attuato. Dalla sentenza si evince che “Il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Si può forse dubitare se esso sia o meno da includere nelle misure restrittive tipiche espressamente menzionate dall’articolo 13; e tale dubbio può essere in parte alimentato dalla considerazione che il legislatore ha avuto cura di evitare, anche sul piano terminologico, l’identificazione con istituti familiari al diritto penale, assegnando al trattenimento anche finalità di assistenza e prevedendo per esso un regime diverso da quello penitenziario. Tuttavia, se si ha riguardo al suo contenuto, il trattenimento è quantomeno da ricondurre alle “altre restrizioni della libertà personale”, di cui pure si fa menzione nell’articolo 13 della Costituzione. Lo si evince dal comma 7 dell’articolo 14, secondo il quale il questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura ove questa venga violata.
Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale. Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto.”
I giudici della Corte, attraverso la sentenza n.222 del 2004, si espressero sull’articolo 13 co. 5-bis del d.lgs. 286/98, affermandone l’illegittimità costituzionale nella sezione in cui non si prevedeva che la convalida dell’espulsione dal Giudice di Pace dovesse porsi in essere attraverso i principi di contradditorio e difesa, doverosamente attuabili anche in caso di prolungamento della detenzione amministrativa. Le istanze della Consulta, tuttavia, sono ancora sottoposte al giogo del legislatore e delle sue modifiche, continuando la reiterazione di misure di trattenimento o espulsione senza una concreta convalida giurisdizionale.
Il nostro Governo sembra voler complicare le procedure di allontanamento volontario dal territorio nazionale in caso di irregolarità. Ciò emerge dal comma 3 dell’articolo 9 della legge n. 50 del 2023, che abroga l’articolo 12, comma 2, del regolamento di attuazione del Testo Unico sull’immigrazione, il quale concedeva allo straniero un termine non superiore ai 15 giorni in caso di diniego della domanda di permesso di soggiorno. Questa modifica riduce, se non annulla del tutto, la possibilità di rimpatrio volontario, favorendo i casi di espulsione con accompagnamento forzato e, quindi, incrementando le situazioni di detenzione amministrativa, che secondo le direttive UE dovrebbero avere un carattere puramente residuale. In queste strutture, infatti, le tensioni aumentano: morti, suicidi, rivolte e atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. La politica sembra non volersi allineare ai principi costituzionali, alle sentenze della Corte e ai valori di diligenza umana, che dovrebbero garantire il rispetto della dignità di queste persone. Dunque, l’inferno del CPR continua.
I CPR dopo il ddl Sicurezza
Nel disegno di legge Sicurezza, approvato il 18 settembre scorso alla Camera dei deputati, i reati piovono: ad ogni fenomeno, si risponde con manette, tribunale e carcere. Viene addirittura introdotto un reato ad hoc per i CPR, all’articolo 26 della legge licenziata da Montecitorio, per reprimere le proteste: per chi organizza una rivolta è previsto il carcere da 1 a 6 anni, mentre la sola partecipazione prevede una penda da 1 a 4 anni.
Se nel corso della rivolta qualcuno rimanesse ucciso o riportasse lesioni gravi la reclusione, prevista va dai 10 ai 20 anni. Un panpenalismo che rischia di punire con pene elevate anche chi resiste passivamente agli ordini in un CPR: non rientrare nelle proprie camere – ad esempio – in segno di protesta, potrebbe diventare penalmente rilevante. Una norma simile alla cosiddetta “anti-Ghandi” adottata per le carceri. Ed ecco che si criminalizza il dissenso, anche pacifico, dove in questi luoghi è più che mai necessario per denunciare le condizioni intollerabili di vita degli immigrati in strutture che assomigliano sempre di più a veri e propri lager.
Gli incendi e i tentativi di fuga – atti violenti e sicuramente da arginare, sia chiaro – ma anche gli atti di autolesionismo e i digiuni rappresentano gli unici mezzi che quelle persone hanno. Anziché ascoltare, il Governo intende criminalizzare addirittura il dissenso. Non bastava l’abuso di somministrazione di psicofarmaci per sedare le dimostrazioni: da domani si renderà più solido il circuito criminale e criminogeno in cui verranno risucchiate molte persone che cercano semplicemente di vivere in un Paese sicuro e migliore; in un’Italia che consideravano Stato di diritto.
Nel frattempo, la società civile si muove diversamente. La solo presenza del CPR di Ponte Galeria rappresentano “una lesione dell’identità e dell’immagine della Città di Roma e della comunità, dei suoi e delle sue abitanti“. Sono queste le parole che hanno spinto diversi docenti universitari a sottoporre al sindaco della Capitale, Roberto Gualtieri, la chiusura immediata del centro di permanenza per il rimpatrio situato nella Città Eterna. “A Roma è stato firmato lo Statuto che istituisce la Corte penale istituzionale, la città non può tollerare la presenza di un luogo come il CPR al suo interno – dichiara Mauro Palma, l’ex Garante nazionale delle persone detenute. La nostra azione non vuole contrapporsi al Comune, al contrario pensiamo che l’amministrazione sia il primo alleato di questa iniziativa promossa dalla società civile”.
E’ forse la gente, per sua coscienza e umanità, molto più consapevole del martirio che centinaia di migranti sono costretti a subire in queste strutture? Una cosa è certa: i CPR, finora, hanno solo prodotto morte e disgrazia.
A cura di
Riccardo Morgante e Filippo Blengino (Tesoriere Radicali Italiani)