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    Gaza, l’ONU approva il piano di Trump: pace amministrata o tregua mascherata?

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    Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato il piano presentato da Donald Trump per Gaza: una risoluzione importante, ma che lascia sul tavolo tante incognite quante promesse. 

    Definita “storica” da Washington, la decisione porta con sé ombre sulla concreta realizzazione del piano e sul futuro della Palestina e dei palestinesi.

    Ma cosa prevede, davvero, il programma approvato dalle Nazioni Unite?

    Una tregua mai realmente solida

    Di quella fragile architettura diplomatica che oggi torna al centro dell’attenzione internazionale, ne avevamo parlato qui, quando a inizio ottobre la tregua muoveva i primi, timidi e vacillanti, passi. La risoluzione approvata nelle scorse ore dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nasce per consolidare questa situazione.

    Dal 10 ottobre, la tregua formale nei combattimenti tra Israele e Hamas ha retto, nonostante non siano mancati episodi e tensioni critiche. Giorno dopo giorno, la diplomazia ha rincorso una stabilità che, di fatto, è sempre stata più presente nei discorsi politici che nella Striscia.

    L’approvazione all’Onu è stata larga: 13 voti favorevoli, Russia e Cina astenute, nessun veto. Trump, con le formule iperboliche che caratterizzano da sempre la sua comunicazione, ha parlato di una delle votazioni “più importanti nella storia delle Nazioni Unite” sul suo social Truth. 

    Eppure, questo, fa luce su un aspetto importante: l’ambizione della Casa Bianca di trasformare Gaza in un dossier americano e riportare la gestione delle crisi all’interno di un meccanismo sì multilaterale, ma guidato da Washington e, in questo caso, costringere Mosca e Pechino verso una sorta di neutralità controllata.

    Cosa prevede il piano approvato dalle Nazioni Unite?

    Il piano approvato dal Consiglio di Sicurezza potremmo dire reggersi su tre pilastri portanti: una nuova governance, una forza internazionale e un percorso, ipotetico e potenziale, verso la statualità palestinese.

    La risoluzione sostiene infatti la creazione di un Board of Peace presieduto dallo stesso presidente statunitense: un organismo di transizione dotato di personalità giuridica internazionale, incaricato di amministrare Gaza fino a quando non vi sarà un’Autorità Palestinese rinnovata e riformata, in grado di farlo autonomamente.

    Accanto a questo, viene autorizzata la International Stabilization Force (ISF): un contingente multilaterale i cui compiti saranno diversi. In primis quello di garantire sicurezza ai confini con Israele ed Egitto e proteggere i civili, poi ancora gestire i corridoi umanitari e supervisionare e assicurare la demilitarizzazione della Striscia.

    Il ritiro israeliano, per la prima volta, viene progettato e pensato secondo “standard e tappe” graduali e nel mentre nel testo compare — ma ancora in forma del tutto condizionale e ipotetica — la possibilità che, una volta ristabilita la governance palestinese, “si creino le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la nascita di uno Stato palestinese”. Riconoscimento sul quale Tel Aviv non smette di porre il veto. Allo stato attuale delle cose, questo appare come un miraggio nel deserto.

    Un piano inaccettabile per Hamas e la Forza Internazionale senza un volto

    La risposta di Hamas non si è fatta attendere ed è stata netta: nessuna forza internazionale nella Striscia e nessun comitato presieduto da Trump. Per Hamas la risoluzione approvata, non solo “non risponde ai diritti politici e umani dei palestinesi”, ma anzi apre la strada verso una forma di amministrazione esterna che smantellerebbe del tutto la propria legittimità interna.

    L’Autorità Nazionale Palestinese, al contrario, ha accolto positivamente il testo vedendo in esso, l’unica finestra concreta e possibile per tornare a una sorta di normalità a Gaza; una normalità dove l’Autorità stessa potrebbe tornare a contare politicamente nei territori palestinesi. Per farlo, però, dovrà riformarsi profondamente e sotto supervisione esterna. Una scommessa sul futuro non senza angoli bui.

    Intanto, uno dei nodi più delicati è sicuramente quello legato alla forza internazionale per la stabilizzazione. La risoluzione ne definisce infatti le funzioni, ma non la sua composizione. Smilitarizzazione, controllo dei confini, disarmo dei gruppi armati, protezione dei civili: compiti enormi i cui esiti non sono per niente scontati.

    L’incognita cresce ulteriormente, senza sapere nel concreto chi manderà uomini e mezzi e con quali regole di ingaggio. E ancora, la forza internazionale in questione, quale rapporto avrà con l’esercito israeliano? Una ambiguità formale che potrebbe minare il piano già nei suoi primi passi.

    Lo Stato palestinese: accenno o promessa?

    Dopo lunghe trattative, come accennato, la risoluzione include la possibilità di “un percorso serio verso l’autodeterminazione palestinese e la nascita di uno Stato”. La formula, per quanto prudente, apre a una possibilità importante. Netanyahu ha ribadito che “l’opposizione a qualunque Stato palestinese non è cambiata”. Intanto l’ambasciatore Danon ribadisce quelle che sono condizioni necessarie per Israele: la restituzione dei corpi degli ultimi ostaggi e la smilitarizzazione totale di Hamas.

    Entrambe queste condizioni, come già discusso nel precedente articolo, presentano limiti operativi che, ancora oggi, non si sa come e se potranno essere superati concretamente. La creazione di uno Stato palestinese resta, per ora, dunque più un’ipotesi simbolica che un impegno operativo.

    Per ora, l’unico elemento concreto è la timeline: il mandato del comitato di pace scade il 31 dicembre 2027. Fino ad allora, Gaza sarà amministrata da una struttura internazionale presieduta da Washington.

    Perché Russia e Cina non hanno bloccato il piano

    L’astensione di Mosca e Pechino è, ovviamente, un dato politico rilevante. Entrambe hanno criticato la risoluzione in questione ma senza affossarla ponendo su di essa il veto, come avrebbero potuto fare.

    Il conflitto israelo-palestinese non è mai stato solo una crisi regionale e oggi questo vale ancora più che in passato: fa parte, a tutti gli effetti, di quella competizione sistemica globale che negli ultimi anni è tornata al centro della scacchiera internazionale. Ma allora perché non bloccare, formalmente, il piano della Casa Bianca?

    I motivi sono essenzialmente due e potremmo dire essere validi entrambi sia per Mosca che per Pechino: da una parte affossare il piano avrebbe significato regalare a Trump il pretesto per attaccare le due potenze rivali come responsabili nella ripresa della guerra e, dall’altra parte – e questo oggi vale più per Pechino – l’obiettivo geostrategico è quello di conservare un rilevante margine di influenza nel mondo arabo, senza apparire come l’ostacolo al cessate il fuoco.

    Ecco che l’astensione resta una scelta in qualche modo vincolata: non approvano, ma nemmeno impediscono.

    Una pace amministrata o una tregua mascherata?

    Uno dei rischi principali sul piano geopolitico è che quello approvato, non tracci la strada verso la pace, ma finisca per condurre al congelamento del conflitto, senza risolverlo davvero.

    La storia, più di una volta, ci ha dimostrato quanto sia fragile spostare l’instabilità di una regione sotto l’ombrello di un sistema amministrativo internazionale dotato di un’architettura militare e diplomatica ancora incerta. La domanda, al di là degli aspetti operativi del piano, resta se funzionerà e per quanto tempo. Gli interessi, molteplici e del tutto divergenti, delle forze in campo torneranno a esplodere? Ci si augura di no, anche se una tregua senza una soluzione politica solida tra le parti, resta molto spesso una pausa tra due crisi.

    20250445

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