Negare che i social abbiano acquisito uno spazio molto importante nelle nostre vite risulterebbe inutile e dannoso tanto quanto respingere l’evoluzione dell’opinione della comunità scientifica. D’altro canto, come in ogni cosa, è la dose assunta a trasformare quello che dovrebbe essere un farmaco in vero e proprio veleno: in questo caso si parla di utilizzo disfunzionale. Disfunzionale al punto tale da indurre utenti di ogni età a confondere identità reale e identità virtuale e così a barattare, senza alcun timore per le possibili ripercussioni sulla salute mentale, la propria privacy con l’agognata approvazione sociale.
Ossessionati dai social, sfuggenti alla realtà
I flussi di dati e informazioni che deliberatamente facciamo transitare su piattaforme come Instagram, X e Threads hanno oggi raggiunto dimensioni abnormi. Viviamo un mondo sempre più globalizzato benché emotivamente poco preparato: vogliamo sapere tutto di tutti, siamo ossessionati dalla moda piuttosto che dallo stile, abbiamo assunto lo stile del Grande Fratello citato da Orwell come modello di vita per poi non riuscire a decifrare i comportamenti e i sentimenti di chi ci sta accanto. Siamo parte integrante di un’era onlife: un click per rispondere ad un annuncio di lavoro, un ‘mi piace’ per filtrare, un singolo e asettico messaggio scritto per troncare una relazione.
La nostra esperienza sui social è come un pendolo che oscilla incessantemente tra la mancanza di privacy e il bisogno di approvazione. Una volta avviato il proprio profilo, la condivisione è tutto e tutto è condivisione: benché comuni mortali, per galleggiare in un oceano popolato da influencer dagli indubbi principi capitalistici, occorre quanto meno andare in scena dall’alba al tramonto, giorno feriale o festivo che sia. La condivisione – il nuovo ossigeno 2.0 – sta alla sopravvivenza come un qualsiasi dipendente sta al proprio compenso mensile.
La questione si complica quando si apprende che, per superare i tanti limiti posti dall’algoritmo – quello che, vale la pena ricordarlo, tiene traccia di tutto ciò che facciamo online – la buona volontà non è sufficiente. Serve costanza, strategia, lungimiranza e, soprattutto, capacità di adattamento al panorama circostante. Lo stesso panorama che sbandiera autenticità ad ogni costo, senza badare al fatto che – in questo posto chiamato mondo – quest’ultima è tutto fuorché realmente tale. La fantomatica improvvisazione digitale è, difatti, un ossimoro. Una completa contraddizione anche per quei social basati sul concept del no filter: in essi, volenti o nolenti, si è comunque portati ad indossare parzialmente una maschera e a mantenere una linea strategica. Ci aveva visto lungo Erving Goffman, sociologo canadese che già alla fine degli anni ’50 scriveva: “non facciamo che recitare una parte, sempre e dappertutto.”
Social media is not real, direbbero alcuni. Eppure, una volta esibito un singolo aspetto della propria vita, la tentazione di proseguire su questa linea mediante una scala sempre più crescente è davvero tanta. Al bando, dunque, temi impegnati e divisivi; strada spianata invece per affetti, animali domestici, capi più o meno costosi, isole tropicali, aperitivi con gli amici, cene romantiche, successi professionali e privati. Così del resto fan tutti; la disperata corsa all’uniformità pare l’unica soluzione effettivamente percorribile per sfondare. In caso contrario, l’oblio è praticamente dietro l’angolo: il vibe non è quello giusto.
I più esperti in materia parlano a questo proposito di vetrinizzazione sociale, processo che ad oggi permea ogni ambito preoccupandosi, in prima battuta, di tradurre in semplicità qualsivoglia spiraglio di complessità. Il risultato? L’impressione del profitto, la speranza del “potercela fare” postando qualche foto oppure inaugurando un nuovo trend. Ci si auto-inganna di essere pastori di pletore di follower e, soprattutto, di beneficiare di un potenziale seduttivo talmente elevato da riuscire a determinare, in breve tempo e con poco impegno, le vite e le scelte altrui.
Tutta colpa del digitale? No, occorre risalire al decennio compreso tra gli anni Ottanta e Novanta per trovare i primi accenni di mediatizzazione della vita pubblica; è questo il periodo in cui, in seguito allo sviluppo della televisione commerciale, gli individui hanno cominciato a subordinare l’essenza – e tutto ciò che le consegue – all’apparenza.
Fear of missing out
Complice l’arrivo della stagione estiva, le timeline sui principali social diventano il nuovo status symbol di cui fregiarsi. Foto, video, reel, dirette streaming: dal particolare al generale, purché se ne parli. Nasce così un processo luccicante e sfarzoso di spettacolarizzazione del quotidiano in cui a fare la parte del leone è la convivialità: moneta tanto preziosa quanto dolente. La stessa che, iper-esposta sfruttando ogni pretesto possibile, alimenta sempre più quel circuito vizioso di pubblicazione e ricerca del consenso che collima con l’ambizione sottesa a ciascuno di noi: l’affermazione dell’identità intesa come canovaccio da gestire meticolosamente, esattamente come attori particolarmente dotati su un palcoscenico. In un contesto storico in cui le disuguaglianze sono più che mai accentuate, la massima ambizione delle persone diventa quella di costruirsi un posto nel mondo simile a quello che, quotidianamente, viene messo in evidenza sulle piattaforme. Chi non riesce a farsi notare con l’ascensore sociale – fermo da oltre 30 anni al piano terra – prova quindi con l’ascensore social. Alimentato, quest’ultimo, da un’unica grande leva: l’ossessione narcisistica della perfezione.
Considerato lo scorrere incessante e precipitoso della vita quotidiana, non desta scalpore l’incredulità di quanti leggano fra queste righe tutti quei segnali tesi ad alimentare la FOMO – dall’inglese Fear Of Missing Out – la cosiddetta paura di “essere tagliati fuori”, di non essere aggiornati sulle ultime tendenze. Ma non solo: il timore di non essere abbastanza e di valere meno di tanti altri coetanei, la cui vita viene prima monitorata con spiccato senso critico e poi messa sul piatto della bilancia in un confronto spesso tossico.
Ripiego o volontà che sia, la morbosità dell’utilizzo – spesso quasi simultaneo – di più piattaforme non fa altro che incrementare un bisogno intrinsecamente umano: l’interazione sociale. È così che, ogni qualvolta ci imbattiamo in qualcosa che ai noi nostri occhi appare meritevole, immediatamente cogliamo l’attimo e lo diffondiamo in rete, cercando di capitalizzare quanto in nostro possesso mediante like o commenti. Illudendoci, così facendo, che tutto ciò sia sufficiente a placare il nostro desiderio di emergere socialmente, almeno fino alla prossima “crisi”. Crisi che, inevitabilmente, urla a gran voce quando ci accorgiamo che quel vortice di solitudine e isolamento sociale apparentemente contrastato, in realtà è vivo e ardente. L’unico modo per reagire è assumere una dose dopo l’altra: inchiodarsi davanti allo schermo a contare e ricontare i successi e i follower altrui.
Più che evidenti, dunque, tutti i presupposti destinati a creare uno stato di flow incessante e persino narcotico: basti pensare al fatto che succede di visionare uno stesso video all’infinito, facendo poi zapping da un contenuto all’altro scorrendo verticalmente. A questo va aggiunto anche quel meccanismo di gratificazione immediata capace di rilasciare neurotrasmettitori come la dopamina che ci fanno sentire bene; in sostanza, più visualizzazioni abbiamo e più ne vorremmo. Da qui nasce una dipendenza equiparabile in tutto e per tutto a quella causata dall’abuso di sostanze stupefacenti.
Ma cosa succede esattamente nel nostro cervello quando usiamo troppo i social? Secondo un articolo pubblicato sul Medicine International nel 2017, l’uso eccessivo può provocare molteplici “alterazioni neuroanatomiche e neurochimiche”. Tra le conseguenze si annoverano istinti suicidi, insonnia e scarsa autostima. Lo scarto tra la propria quotidianità e la vetrina dello smartphone, oltre a creare un perenne senso di insoddisfazione, può rivelarsi fatale per molti utenti. In casi meno gravi, la lucidità delle decisioni che prendiamo può andare notevolmente peggiorando.
Salvaguardare la salute mentale
È controproducente puntare il dito solo e soltanto contro i giovani: accusati ora di essere fragili e frivoli, ora di non reggere il confronto con le generazioni precedenti e conseguentemente di rifugiarsi nel mondo virtuale; sono in realtà questi ultimi ad avere intuito la tossicità proprio di quelle piattaforme che, all’inizio degli anni ’90, dovevano ridurre distanze, abbattere muri, appiattire disuguaglianze sociali.
Come in ogni ambito sociale, anche in questo caso è necessario anzitutto capire a fondo prima di agire. D’altro canto, stando alla situazione attuale, degli effetti profondamente dannosi causati dai social la nostra società – nella sua interezza – non ha ancora raggiunto un livello adeguato di contezza. Questo nonostante la comunità scientifica sia, da tempo, attiva in questo senso con numerosi studi e ricerche.
Basta davvero poco per rendersene conto: l’età media cui le famiglie acquistano il primo cellulare ai propri figli si sta sempre più abbassando, l’istruzione pubblica primaria e secondaria è pressoché sorda rispetto al grande frastuono causato delle sfide dei nostri tempi – fake news, intelligenza artificiale, deepfake, cyber bullismo. L’educazione digitale, nel migliore dei casi, rientra nel grande calderone delle materie cosiddette di “Serie B”, in buona compagnia con l’educazione ambientale, sessuo – affettiva e finanziaria. Le ripercussioni sulle salute mentale sono tutt’oggi minimizzate, quasi come un vezzo passeggero. Ultimo, ma non per importanza, si continua a corroborare quell’ideale di semplicità e praticità – divulgato dalle principali piattaforme – che nulla ha a che fare con la vita reale.
La palla passa quindi nelle mani delle istituzioni e degli interlocutori politici: tra questi ultimi c’è chi ipotizza il divieto di accesso ai social per gli adolescenti under 13 e la richiesta di consenso parentale per quelli di età compresa tra i 13 e i 15 anni. Un punto d’avvio senz’altro promettente, ma che richiede costanza e linearità per definire una retta di regolamentazione.