Gli psichedelici possono curare disturbi, patologie psichiatriche e malattie invalidanti sul piano dell’umore? Al momento, non possiamo affermarlo con certezza, e le ragioni di questo dubbio clinico sono molteplici, tra cui il persistere di pregiudizi scientifici. Non è un caso che una parte significativa della comunità medica specializzata nella salute mentale parli di un vero e proprio “rinascimento psichedelico”. Allo stesso modo, non sorprende che, nel nostro Paese – intriso di diffidenza verso il progresso – l’argomento sia largamente ignorato, incluse università e centri di ricerca.
Dagli sciamani ai figli dei fiori
La storia dell’impiego ricreativo e socioculturale degli psichedelici è molto più antica di quanto si possa immaginare. Le sue radici affondano nelle culture sciamaniche e nel mondo ancestrale delle prime popolazioni che abitarono la nostra Terra. Questi popoli, spinti dalla curiosità e dal desiderio di esplorazione, scoprirono e utilizzarono senza pregiudizio sostanze psichedeliche come la psilocibina e la salvia divinorum. La natura, infatti, offre un’ampia varietà di sostanze in grado di alterare la percezione della realtà, modificando il modo in cui percepiamo lo spazio, il tempo e, in generale, ciò che ci circonda.
Con l’arrivo dell’età moderna, la storia degli psichedelici subisce una svolta significativa. A partire dagli anni ’50, psichiatri e neuroscienziati iniziarono a studiare concretamente il potenziale terapeutico di queste sostanze, riconoscendo in modo unanime i benefici che possono offrire nel trattamento di diversi disturbi psicologici. Tuttavia, oggi come allora, la scienza si è dovuta confrontare con il muro dello scetticismo, del pregiudizio e della negazione incondizionata di questo approccio clinico. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli psichedelici furono tabellati come sostanze pericolose e banditi, interrompendo drasticamente la ricerca in questo settore. Tale decisione (politica) si contrapponeva all’ascesa del movimento dei figli dei fiori negli anni ’70: una generazione di rivoluzionari che trasformò le praterie del Minnesota in palcoscenici per rave rock psichedelici e riempì le strade di Philadelphia di messaggi legati all’emancipazione sessuale, alla pace nel mondo e al celebre slogan “Flower power”, sempre accompagnati da un joint di “erba buona” nelle tasche.
Oggi, seppur con le dovute differenze, la medicina internazionale sta cercando di recuperare lo spirito di questa pacifica rivoluzione psichedelica, scontrandosi ancora una volta col muro del pregiudizio che continua a ostacolare il progresso e il benessere di chi, per scelte altrui, patisce un condizione di sofferenza perpetua.
LSD e depressione
Metilendiossimetamfetamina (MDMA), ayahuasca, mescalina e il dietilamide dell’acido lisergico, noto urbi et orbi come LSD, stanno mettendo in discussione la farmacologia tradizionale per il trattamento di disturbi come ansia, depressione e sindrome da stress post-traumatico. Questo avviene perché la medicina classica sta attraversando un periodo di crisi di fiducia da parte dell’opinione pubblica. Infatti, i farmaci comunemente utilizzati nella psicologia e psichiatria tradizionale sono spesso associati a effetti collaterali indesiderati, come la dipendenza. Proprio per queste ragioni, negli ultimi anni, la comunità scientifica internazionale ha iniziato a rivalutare le terapie psichedeliche. È stato dimostrato che, attraverso un uso controllato, con dosaggi appropriati e sotto la supervisione medica, queste sostanze, integrate con la psicoterapia, possono avere effetti benefici, se non addirittura curativi, su alcuni disturbi, in particolare quelli dell’umore.
Sotto l’accusa indiscriminata e spesso priva di fondamento scientifico della politica, si trova, più di tutte le altre sostanze sopraindicate, l’LSD. Il suo potenziale psichedelico e l’associazione culturale, infatti, hanno contribuito a creare un clima di sfiducia nei suoi confronti. Anche per questo motivo, gli studi di settore sull’impiego di questa sostanza per scopi clinici e psichiatrici arrancano da ormai troppo tempo, soprattutto nel nostro Paese.
Ma cosa accadrebbe se vi fosse una sostanza con gli stessi effetti neurologici dell’LSD, ma senza provocare evidenti e pericolosi stati di alterazione psicofisica? Quello che i ricercatori della Carleton University, del Medical College of Wisconsin e dell’University of California di San Diego hanno scoperto è davvero sorprendente: un equivalente dell’LSD che non genera “sballo” e che ha ottenuto risultati significativi per il trattamento clinico dei disturbi dell’umore. Angel Aguillar Valles, neuroscienziato della Carleton University, intervistato da Medical Express, ha infatti dichiarato: “Da quando il mio laboratorio ha aperto i battenti abbiamo studiato i meccanismi di azione che conferiscono alla ketamina il suo effetto antidepressivo, e abbiamo mantenuto un interesse costante per l’identificazione di nuovi potenziali trattamenti per i disturbi dell’umore. Nell’inverno del 2021 sono stato contattato da BetterLife Pharma, con la richiesta di collaborare per dimostrare il potenziale di una molecola chiamata 2-Br-lsd nell’aumentare la plasticità neurale e indurre modifiche comportamentali nei topi che siano rilevanti in termini di terapie antidepressive”.
Le analisi condotte sulle cavie da laboratorio, in particolar modo sui recettori neurali tipicamente attivati dall’LSD, hanno evidenziato due questioni importanti. La prima è che non sono state registrate allucinazioni o particolari alterazioni psicofisiche; la seconda, e forse più significativa, riguarda il netto miglioramento dello stato di salute mentale dei topi in relazione allo stress cronico e all’ansia. Risultati che lasciano aperte molte possibilità di studio e ricerca su queste sostanze e sugli effetti che potrebbero essere riscontrati sull’uomo.
In Italia?
La salute mentale resta uno degli argomenti più negletti quando si parla di salute personale, soprattutto dal punto di vista della ricerca scientifica e delle politiche pubbliche attuate dai governi. In Nord America, principalmente negli Stati Uniti, in Canada e in Europa con l’esempio svizzero, sostanze psichedeliche riconducibili all’LSD e MDMA – in dosi contenute e vigilate da un medico – fanno parte di un’offerta terapeutica che ha dimostrato efficacia nel contrastare problematiche legate alla salute mentale.
Tali terapie, circoscritte a specifiche patologie dell’umore, mostrano un potenziale palliativo significativo (stimato attorno al 70%) e vengono spesso utilizzate come percorso complementare alla farmacoterapia ufficiale e tradizionale. Nel nostro Paese, invece, per ragioni concorrenziali e ideologiche, lo studio, la ricerca e la commercializzazione di queste terapie sono sistematicamente ostacolati. Questo avviene con il supporto di posizioni antiscientifiche, spesso basate su studi inesistenti o in contrasto con le evidenze emerse da ricerche internazionali più recenti.
L’unico barlume di speranza arriva non dalle istituzioni, ma dal mondo associativo. In particolare, l’Associazione Luca Coscioni ha lanciato un appello pubblico a sostegno della ricerca su queste nuove terapie e sul loro possibile utilizzo nel contesto farmacologico italiano. L’obiettivo è chiaro: garantire il benessere di tutti attraverso la scienza, il progresso e il prezioso lavoro della comunità internazionale.
La domanda che, tuttavia, sorge spontanea è: sarà il nostro Paese – insieme all’opinione pubblica e alla politica che lo governa – capace di abbandonare i pregiudizi e, come in un paese civile, abbracciare la scienza?