Riemerge come un eterno ritorno nel dibattito pubblico, ma stavolta potrebbe essere quella buona. Con l’approvazione di Palazzo Madama, la riforma sulla separazione delle carriere si avvia verso il giudizio delle urne: saranno i cittadini a stabilire se giudici ordinari e pubblici ministeri debbano continuare a condividere lo stesso “palazzo”.
La giustizia dei talk
Partiamo da un dato: l’Italia ha un problema con la giustizia — anzi, ne ha molti. Uno dei più evidenti è la spettacolarizzazione dei processi, la trasformazione dei casi giudiziari in eventi mediatici travolti dalle pressioni dell’opinione pubblica. Se Garlasco non fosse un esempio lampante, basti pensare ad Avetrana o al caso Gambirasio.
La separazione delle carriere, da sola, non risolve certo una questione che riguarda soprattutto la percezione dei cittadini, più che il funzionamento delle istituzioni chiamate ad amministrare la giustizia. Eppure, anche questa riforma è stata risucchiata nel vortice della giustizia da talk show, diventando terreno di scontro di slogan e propaganda.
Non sorprende che forze politiche che fino a poco tempo fa — perfino mesi — sostenevano con convinzione l’autonomia dei percorsi tra pubblici ministeri e giudici, si rifugino oggi nella retorica della “riforma golpe”, evocando un presunto tentativo dell’esecutivo di mettere al guinzaglio le procure.
Il nodo, in fondo, non risiede nell’essere favorevoli o contrari alla separazione delle carriere, bensì nelle modalità con cui la discussione viene condotta. Quando opinionisti, politici e perfino autorevoli esponenti del mondo giudiziario si esprimono con toni da arena, la forma diventa inevitabilmente sostanza.
Il fronte del “NO”
Ricordiamo tutti il referendum del 2016 promosso dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi: l’abolizione del CNEL, il taglio dei costi della politica, il superamento del bicameralismo perfetto. Temi fondamentali , trasformati in cabaret — complice, anche, la strategia comunicativa di chi quel referendum lo aveva voluto.
Tuttavia, oggi assistiamo a un paradosso simile, ma con sfumature diverse. La riforma sulla giustizia è diventata oggetto di polarizzazione, non tanto per il gioco politico (o almeno non solo), quanto per l’attivismo di una parte significativa del fronte del “NO”, composta da figure che, per il momento, rivendicano la propria distanza dalla politica.
Eppure, non va dimenticato che alcuni di questi attori, non troppo tempo fa, sostenevano apertamente che «l’unica via d’uscita è il sorteggio». Non parliamo di cinquant’anni fa, sebbene i problemi della giustizia italiana siano ottimamente longevi. È il caso dell’attuale procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, che in passato denunciava convintamente la necessità di scardinare il sistema delle correnti nel Consiglio Superiore della Magistratura — appunto, una delle finalità che l’attuale riforma si propone di realizzare proprio attraverso il sorteggio.
«Io ricordo di aver detto, anche in sede istituzionale, già nel 2014, che la madre di tutte le riforme doveva essere quella del CSM. L’unica via d’uscita è il sorteggio, perché è l’unico modo per togliere potere alle correnti», dichiarava Gratteri nel corso di una puntata di “Otto e Mezzo”.
Campo largo, anzi larghissimo
Insieme al procuratore di Napoli, anche altre personalità politiche sembrano aver rivisto le proprie convinzioni sulla separazione delle carriere, almeno nel breve periodo.
Da Matteo Renzi a Debora Serracchiani — la quale, nel 2019, firmò la mozione del Partito Democratico presentata da Maurizio Martina, in cui si definiva «ineludibile» la separazione delle carriere per garantire un giudice realmente terzo e imparziale — fino a Riccardo Magi, segretario di +Europa e erede delle battaglie radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino – che arrivarono persino a fare i tavoli con Berlusconi per portare avanti un “giustizia giusta”.
Infatti, lo stesso Magi, fino a pochi mesi fa, dichiarava quanto segue: «Non è in una piazza come questa che bisogna spiegare perché la separazione delle carriere sia una riforma irrinunciabile, non più rinviabile, necessaria per dare attuazione alla nostra Costituzione». Viene da chiedersi: non si vorrà forse evitare che la riforma passi per il centrodestra? È necessario resistere accanto agli “alleati” per esistere nel Palazzo? Chissà. Per ora, soltanto dubbi e poche certezze.
Una cosa, però, è lampante: nel “campo largo”, anzi larghissimo, oggi c’è posto per tutti. Ex radicali pentiti, magistrati preoccupati, politici che qualche anno fa parlavano di riforma necessaria e ora gridano al colpo di Stato. La riforma smuove equilibri, e gli umori dei diretti interessati (dei giudici) sono la prova più evidente di quanto sia cruciale per le sorti del nostro paese.
In conclusione
Una precisazione è d’obbligo: cambiare idea è legittimo, e talvolta persino necessario. Ciò che dovrebbe preoccupare, però, è l’incapacità, questa volta condivisa dai vertici della magistratura, di offrire ai cittadini un’informazione onesta, seria e accurata su ciò che la riforma andrà realmente a modificare.
Nel vortice degli slogan e degli allarmismi, si è giunti persino a citare impropriamente Giovanni Falcone. Ed è proprio questo il vero tradimento del dibattito pubblico: non la diversità delle opinioni, ma la rinuncia alla verità e al senso di responsabilità verso il Paese.
20250439

