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    Sudan, 14 milioni di sfollati e fosse comuni: cronaca di una strage silenziosa

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    In una delle zone meno illuminate del nostro orizzonte geopolitico, il Sudan è tornato a essere teatro di un dramma che sembra ripetersi come un monito: dall’instabile transizione politica del 2021 al brusco scoppio di violenze nell’aprile 2023, il Paese è scivolato nuovamente in una spirale di conflitto armato, devastazione civile e ricadute regionali. 

    Le immagini satellitari di El‑Fasher, capoluogo del Darfur, mostrano fosse comuni allargate e strade segnate dal sangue: la milizia paramilitare delle Rapid Support Forces (RSF) ha preso il controllo, lasciando dietro di sé segni indelebili di violenze.

    Essa, opposta all’esercito riconosciuto ufficialmente, la Sudanese Armed Forces (SAF), è diventata simbolo di un cambiamento non annunciato ma, seppur in atto, ancora ampiamente trascurato nell’agenda occidentale.

    La storia, le radici, le divisioni interne, le atrocità e la posta in gioco: tutto converge in uno Stato dove la crisi umanitaria ha superato i confini locali e impone all’agenda internazionale una riflessione non più eludibile.

    Le radici del conflitto: dallindipendenza alle milizie

    Il Sudan conquista formalmente l’indipendenza nel 1956, ma i semi dellinstabilità erano già piantati. Le profonde fratture tra nord e sud, tra regione araba‑musulmana e aree africane cristiane e animatiste, esplosero nella prima guerra civile (1955‑72). Negli anni successivi, quelle tensioni si fusero con la linea autoritaria di Omar al‑Bashir, salito al potere con un colpo di Stato nel 1989 e divenuto l’artefice della tragica guerra del Darfur, dove la milizia dei Janjaweed — il cui nome, in arabo, significa ‘i diavoli a cavallo’ — embrione della futura RSF, si macchiò di atrocità che la Corte Penale Internazionale qualificò come crimini contro lumanità e genocidio tra il 2003 e il 2008. 

    I Janjaweed, appoggiati dallo Stato centrale, furono protagonisti di campagne di distruzione contro le comunità africane Fur, Zaghawa e Masalit: villaggi bruciati, uccisioni, stupri e deportazioni di massa. Con la caduta del regime di al-Bashir nel 2019, dopo 30 anni di dominio, sembrava potesse aprirsi una nuova fase di transizione democratica. 

    Ma le divisioni interne si acuirono: da un lato l’esercito SAF, guidato dal generale Abdel Fattah al‑Burhan, dall’altro la RSF sotto la guida del generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemedti, ex capo della RSF e attore chiave del nuovo conflitto.  

    Il nuovo conflitto esplose il 15 aprile 2023, quando la RSF dispiegò le sue unità nella capitale Khartoum e in altre città chiave, aprendo la fase più cruenta della guerra civile in corso. 

    Darfur: il ritorno a violenze, cadaveri e pulizia etnica

    Il Darfur è tornato a essere epicentro di atrocità. Le immagini satellitari più recenti documentano fosse comuni attorno a El‑Fasher, segnali visibili di un orrore che si consuma nell’indifferenza: corpi lasciati insepolti per giorni, sepolture sommarie, villaggi carbonizzati e cumuli di cadaveri bruciati.

    Lo Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale ha pubblicato prove fotografiche in cui si distinguono strade insanguinate, fosse aperte, poi ricoperte e segni evidenti di violenze. Secondo i rapporti, almeno 1.000 corpi sarebbero stati sepolti nel cimitero Al‑Ghabat di El‑Geneina nelle settimane dell’assalto della RSF.

    Le dimensioni della tragedia si allargano: oltre 14 milioni di persone sono oggi costrette alla fuga interna o all’esilio, milioni si trovano in stato di fame acuta, mentre intere città risultano assediate, senza corridoi umanitari praticabili.

    Le testimonianze parlano di esecuzioni extragiudiziali, persecuzioni etniche, stupri sistematici e selezioni arbitrarie delle vittime. Espressioni che riecheggiano i crimini già commessi nello stesso Darfur vent’anni fa.

    Sudan, crocevia geopolitico e laboratorio dinfluenze

    Al di là delle catastrofi umanitarie, il Sudan occupa una posizione strategica che lo rende cruciale per gli equilibri dell’intero continente africano. Situato tra il Sahel, il Corno d’Africa e il bacino del Nilo, rappresenta un nodo chiave per i traffici terrestri tra l’Africa centrale e il Mar Rosso, e per l’accesso a risorse minerarie come uranio, oro, petrolio e gomma arabica.

    La presenza della RSF e le sue alleanze internazionali, che includono attori come la Russia e gli Emirati Arabi Uniti, trasformano il conflitto sudanese in uno spazio di sperimentazione geopolitica, dove si misurano interessi esterni e logiche di potere non statuali.

    In questo contesto, la frammentazione del Paese non è solo una conseguenza del conflitto: è anche una condizione che può risultare funzionale a chi intende esercitare influenza senza assumersi responsabilità. L’assenza di una sovranità unitaria apre così la strada a investimenti opachi, economie estrattive e flussi illeciti, compresi quelli di esseri umani.

    Per l’Europa, e in particolare per l’Italia, che guarda al Mediterraneo meridionale con crescente attenzione, il collasso del Sudan significa instabilità proiettata: migrazioni incontrollate, fragilità nel Sahel e interruzioni nelle catene di approvvigionamento che alimentano agricoltura, energia e materie prime.

    Cosa fa lEuropa e che strada deve percorrere

    Di fronte al precipitare degli eventi in Sudan, l’Unione europea ha risposto con interventi d’urgenza: aiuti umanitari, richiami diplomatici, sanzioni mirate. Ma l’azione resta frammentata, priva di una cornice strategica.

    Il rischio è che il Sudan venga archiviato come una crisi periferica, confinata all’Africa sub-sahariana, mentre le sue ricadute toccano in profondità l’equilibrio globale. 

    L’instabilità sudanese ha già effetti a catena: aumenta la pressione migratoria lungo le rotte orientali, destabilizza Paesi confinanti come Ciad ed Etiopia, alimenta traffici transfrontalieri gestiti da milizie e reti criminali.

    In assenza di una presenza politica solida, lo spazio sarà occupato da potenze che operano in chiave bilaterale, spesso con logiche opportunistiche e non trasparenti.

    Una strategia europea efficace richiede oggi strumenti di lungo termine: sostegno alla governance locale, controllo dei corridoi logistici, partenariati mirati nel settore minerario e infrastrutturale.

    Perché anche le crisi considerate “secondarie” possono, nel tempo, diventare snodi decisivi negli equilibri globali.

    Oltre il conflitto: il prezzo dellindifferenza

    Ogni immagine satellitare, ogni fossa anonima, ogni civiltà spezzata ci ricorda che l’instabilità non è più l’eccezione, ma una condizione ricorrente del nostro tempo. L’idea stessa di una transizione democratica, in questo contesto, è stata soppiantata da un ordine militare privo di legittimità, mentre la comunità internazionale fatica a leggere ciò che accade sotto i propri occhi.

    Il vero punto di svolta non si misurerà soltanto con un cessate il fuoco o con la ripresa dell’economia locale, ma con l’emergere di una visione strategica condivisa che riconosca la centralità di scenari finora ritenuti secondari.

    In un contesto globale sempre più interconnesso, l’incapacità di leggere queste faglie geopolitiche equivale a cedere spazio a logiche di forza e destabilizzazione.L’Occidente, se vuole continuare a esercitare un ruolo di guida e garanzia nell’ordine internazionale, non può permettersi di arretrare proprio dove la sua presenza strategica è più necessaria, perché nessuna crisi resta periferica in un mondo dove la distanza non protegge più nessuno.

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