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    The Substance. Lo spirito del tempo secondo Coralie Fargeat

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    Non c’è dubbio sul fatto che Demi Moore venga ricordata – e che probabilmente verrà sempre ricordata – per il suo ruolo a fianco del compianto Patrick Swayze in Ghost di Jerry Zucker. É altrettanto vero però che mai prima d’ora avevamo avuto la possibilità di assistere a quello che possiamo tranquillamente definire come il suo stato di grazia. In una storia che rimbalza tra il suo corpo già “sfigurato” dalla chirurgia plastica e quello levigato come una statua di marmo di Margaret Qualley, Demi Moore mette in scena un bombardamento – definirlo critica sarebbe un eufemismo – che rade al suolo il terreno hollywoodiano e dello show business le cui fondamenta si costituiscono di machismo, sessismo, nonché della triste rassegnazione nel dovervisi subordinare.

    Le gomme da masticare dei produttori

    Quando ad Elizabeth Sparkle viene concessa, a settimane alterne, la possibilità di vivere nel corpo di una donna più bella e giovane di lei, la vita dell’attrice da Oscar che si era ridotta a condurre una trasmissione di aerobica cambia radicalmente. 

    Le dinamiche scatenanti, tuttavia, non sono tutti i problemi e le tematiche che affronteremo a breve, ma il gesto compiuto dal produttore dello show Harvey che decide di licenziarla nel giorno del suo cinquantesimo compleanno a causa della sua età. In questo, il film è molto chiaro fin dall’inizio e ce lo ricorda più volte: la spirale discendente nella quale cadrà Elizabeth è sì causata dalle sue scelte, ma trova origine nel vomitevole ambiente nel quale Elizabeth stessa lavora. La vera critica non è contro Elizabeth, ma contro chi le sta attorno.

    E’ dunque d’importanza primaria l’invettiva contro gli uomini che gestiscono lo show business – non a caso, il personaggio interpretato da Dennis Quaid si chiama “Harvey” come Harvey Weinstein – il cui criterio di giudizio per una futura icona si basa principalmente sul fatto che questa sia sessualizzabile o meno. La regista resta però coerente e decide di scindere il suo biasimo non solo verso il maschilismo e il mondo dello spettacolo, ma anche la frequente incapacità delle donne che vi lavorano di accettare se stesse e i cambiamenti fisici che subiscono negli anni nella prospettiva di essere tutto ciò che gli vien chiesto di essere, pur di mantenere il proprio status, a scapito della propria dignità e del benessere psicofisico.

    Si tratta quindi di un attento occhio morale, e non moralistico, sui drammi e le patologie della società moderna e contemporanea, dalle quali la protagonista viene divorata fino diventare totalmente incapace di gestire la solitudine e la “repulsione” che i produttori dello show provano verso il suo corpo ormai vecchio, al punto di rifiutare di uscire con un uomo una volta resasi conto dell’irreversibilità dell’invecchiamento.

    Quest’ultima è forse la scena migliore del film poiché ne riassume tutto il significato con una forza espressiva mostruosa; non tratta solo la bellezza (a suo dire l’unica parte amabile di se stessa) e i suoi folli standard, ma anche l’estrema solitudine che ne deriva nel momento in cui questo “biglietto d’ingresso al mondo dello spettacolo” scade. 

    Non importa quanti e quali premi le associazioni americane possano conferire, e non importa quanto in alto questa bellezza possa portarti, perché agli occhi dei produttori le cosiddette “STAR” saranno sempre una e una sola cosa: gomme da masticare e da sputare per strada una volta che il loro sapore è finito.

    Intuizione e tecnica

    Oltre ad un’attenta comprensione dei tempi correnti, la regista Coralie Fargeat dimostra anche un grande senso estetico, tecnico e di attribuzione di significati. La gestione spaziale rende nuovamente chiaro come la felicità, la fama e il successo ottenuti in molti settori dello show business siano puramente illusori: Elizabeth vive in un appartamento fin troppo grande per una persona sola, quasi come a specchiare l’isolamento di una donna il cui prestigio sparisce assieme a lei; una sorta di “fortezza della solitudine” che dimostra l’incapacità di scendere a patti con se stessa in entrambe le sue forme. 

    Un altro punto forte è la regia che mette la macchina da presa in tutti i posti corretti senza fermarsi davanti a nulla, né lo splatter, né il body horror – genere che onora alla pari di “Suspiria” di Luca Guadagnino – dal primo momento in cui vediamo la versione giovane di Elizabeth fino a quando non ne rimane che “una macchia sul terreno”. Oltre a mostrare una grande maestria nella regia, la Fargeat dimostra una totale padronanza della tecnica anche attraverso un montaggio estremamente dinamico, riuscendo nell’impresa di far sembrare che un film di più di due ore duri su per giù venti minuti.

    La citazione conclusiva

    L’ultima nota a favore che va aggiunta per concludere l’elogio di quest’opera riguarda il modo in cui sia capace di citare moltissime opere a lei antecedenti, riuscendo sia a portar loro rispetto che a rinnovarne l’idea. Le citazioni non si contano, ma forse la più rilevante è quella rivolta a “2001: Odissea nello Spazio.

    Una delle sequenze finali è accompagnata dal preludio “Così parlò Zarathustra” di Richard Strauss, che ad oggi viene associato quasi più a Stanley Kubrick che a Strauss stesso; parlarne senza rivelare i momenti chiave del finale è difficile, ma è sufficiente dire che dove “Barbie” di Greta Gerwig ha stuprato la sequenza iniziale del film di Kubrick, “The Substance” è invece riuscito ad onorarla in un modo singolare, concludendosi ciclicamente in un finale di cui “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde non potrebbe che essere fiero.

    Si tratta innegabilmente di uno dei migliori film dell’anno: la consapevolezza dimostrata in ogni ambito da Coralie Fargeat nella sua creazione ne fanno un perfetto candidato a superare la prova del tempo incidendosi nella storia come un capolavoro.

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