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    Le carceri e la giustizia sedici anni dopo la morte di Stefano Cucchi

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    Il caso Cucchi resta una ferita aperta nel corpo vivo della giustizia italiana. Nonostante i processi, le sentenze, le condanne definitive, quella ferita non si è mai rimarginata. Stefano non è morto per caso. È morto per mano di chi avrebbe dovuto proteggerlo, anziché brutalizzarlo. Ricordarlo oggi non significa solo tornare sulla sua vicenda, ma ribadire che le ingiustizie, le pene arbitrarie e la violenza non possono trovare spazio nello Stato di diritto. 

    I fatti del 15 ottobre

    La data di oggi, 22 ottobre, è simbolica. Non è solo un anniversario: è il punto d’arrivo di una vicenda che affonda la sua brutalità in giorni precedenti. Sedici anni fa Cucchi moriva, ma la sua condanna a morte era già stata scritta qualche giorno prima, il 15 ottobre 2009, presso il Parco degli Acquedotti, a Roma.

    Trovo profondamente ingiusto, infatti, ricordare una persona soltanto per il momento della sua fine. Per questo, in questo spazio, scelgo di ricordare le sofferenze di un ragazzo di 31 anni che, da quel giorno, ha subito un’ingiustizia che nessuno Stato civile dovrebbe tollerare. Quel 15 ottobre, una pattuglia dei Carabinieri in servizio nella zona Appio Claudio, composta dagli agenti Francesco Tedesco, Gabriele Aristodemo, Raffaele D’Alessandro, Alessio Di Bernardo e Gaetano Bazzicalupo, fermò Cucchi per un sospetto di spaccio di sostanze stupefacenti. Dalla perquisizione emersero venti grammi di hashish suddivisi in dodici pezzi, tre involucri di cocaina, una canna e due compresse – farmaci che Stefano assumeva per l’epilessia. Le sue condizioni di salute, fino a quel momento, non destavano particolare preoccupazione. Ma una volta portato in caserma, le cose cambiarono. 

    Le immagini del pestaggio

    Le immagini di Stefano all’obitorio le conosciamo tutti: un corpo martoriato, segnato da violenze evidenti, da traumi compatibili con un pestaggio. Il volto tumefatto, un occhio rientrato, la mascella e le vertebre fratturate. Lesioni che non potevano essere autoinflitte, come confermarono i periti.

    A tutto questo si aggiunsero denutrizione, disidratazione e abbandono durante i giorni successivi all’arresto. 

    Il “whistleblower” del caso Cucchi

    Il 4 aprile 2022, la Cassazione emise sentenza: i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono stati condannati a dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. In quel lungo percorso processuale sono stati coinvolti anche alcuni medici dell’ospedale Pertini, responsabili di omissioni e negligenze durante il ricovero di Stefano.

    Il caso Cucchi, infatti, non è soltanto la storia di un pestaggio dentro una caserma. È l’emblema di un sistema Stato fatto di complicità e silenzi, di un apparato che tentò in ogni modo di depistare, occultare, riscrivere i fatti. Non si trattò solo di un delitto commesso da uomini in divisa, ma di un meccanismo istituzionale che cercò di proteggere se stesso. Come ricordò il Procuratore Generale della Cassazione, i referti medici dell’equipe del Pertini rappresentarono «un capitolo clamoroso di sciatteria e trascuratezza dell’assistenza riservata a Cucchi».

    Eppure, non tutti scelsero il silenzio. Tra le divise dell’Arma ci fu un uomo che non riuscì più a convivere con il peso di ciò che sapeva: Riccardo Casamassima, carabiniere, il whistleblower del caso Cucchi. Fu lui a rivelare ai magistrati che Cucchi era stato picchiato, e che all’interno della caserma si stava costruendo un muro di menzogne fatto di falsi verbali e testimonianze manipolate. La sua deposizione fu decisiva. Le parole di Casamassima riaprirono le indagini e contribuirono in modo determinante alle condanne del 2022.

    Il destino di Casamassima

    Ma dire la verità non è mai indolore. Casamassima è stato sottoposto a trasferimenti, isolamento, incarichi marginali, sanzioni disciplinari e note di demerito. Oggi possiamo dirlo senza esitazione: Riccardo Casamassima ha pagato a caro prezzo il suo coraggio. Il coraggio di rappresentare al meglio la divisa che, con onore, ha portato addosso. 

    Cucchi nell’Italia di oggi

    Stefano non morì il 22 ottobre di sedici anni fa: morì ogni giorno dopo, ogni volta che qualcuno tentò di riscrivere la verità per insabbiare la giustizia. Morì ogni volta che un politico infangò la sua memoria, riducendo la sua vita a una questione di tossicodipendenza. Morì ogni volta che nessuno si scusò per le ingiurie rivolte alla sua persona, al suo corpo, alla sorella, alla famiglia, sempre resiliente nella richiesta di giustizia.

    Stefano è ogni detenuto che subisce quotidianamente condizioni carcerarie disumane. Stefano è Francesco De Leo, un uomo di oltre 260 kg deceduto pochi giorni fa nel carcere torinese Lorusso e Cutugno, ignorato, barbarizzato, abbandonato dalle istituzioni. Stefano è ogni uomo e ogni donna che, di fronte all’insostenibilità della detenzione, preferisce mettersi una corda al collo.  

    Stefano non è soltanto una lezione di umanità, ma è il monito che lo stesso dolore, la stessa violenza che lui subì tra le mura della caserma e tra le sbarre di Regina Coeli, viene sopportata ogni giorno da migliaia di persone nelle nostre carceri. 

    Stefano, alla fine, non è mai morto, perché con lui sono rimaste tutte le contraddizioni e le ingiustizie del nostro sistema. 

    20250407

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