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    Due poltrone per uno

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    Classico della vigilia di Natale italiana su Mediaset, Una poltrona per due è in realtà antagonista assoluto dei valori delle TV commerciali del berlusconismo. E quest’anno, a causa di un altro nome italiano oltreoceano, rischia di essere guardato con spirito ancora più radicale. (Articolo senza spoiler: leggete tranquilli!)

    Trading places

    Il film si apre con un buon paio di minuti di sequenze tecnicamente introduttive – introduzione più all’epoca, quella reaganiana imperiale, che alla trama dell’opera. Gente che lavora, mercatini, negozi, gente che si sposta, pendolari, affaristi, poliziotti, disoccupati, maggiordomi, senzatetto, poverissimi e oligarchi: un affresco delle metropoli USA dei primi anni Ottanta – non dissimile a quelle attuali, se non perché i poveri sono stati spesso, per usare la terminologia eufemistica aziendalista, dislocati dove non possano insozzare i candidi abiti dei patrizi

    Tutto ciò scorre serenamente, senza intoppi, sulle note dell’ouverture delle Nozze di Figaro di Mozart, creando un affresco quasi vittoriano, come se uscito dalla fantasia di un novello Dickens, senza terrificare o schifare lo spettatore, anzi cullandolo come in un documentario naturalistico. Riprendendo Sanguineti, «è il segreto di Pulcinella: il proletariato esiste.»

    (D’altronde, la pellicola originale porta il nome di Trading Places, titolo neutro eppure un attimo dissonante: si vedono luoghi di scambi commerciali solo piccoli, ma essi diventano via via più superflui. Al loro posto, i colossi degli oligopoli e dei monopoli che, coi loro grattacieli, dominano anche fisicamente lo spazio umano.)

    Una sequela di opposti, messi crudi dinanzi le telecamere di quella che (teoricamente) è una commedia. E che in Italia è diventata da decenni una commedia natalizia grazie a Mediaset. Non saprei dire precisamente perché: Una poltrona per due è una critica feroce al modello della Milano da bere che ha covato e ingrassato l’ideologia di Berlusconi e dei suoi sodali. L’esaltazione dell’ego degli amministratori, lo strapotere materiale dei proprietari, la riverenza quasi feudale in un sistema fondato su una rigida gerarchia socioeconomica mentre predica la flessibilità (l’alter ego della precarietà): ecco la cornice in cui si sviluppa il capitalismo finanziario. Il lusso è esaltato, i poveri se son tali è perché non si impegnano abbastanza mentre i ricchi meritano le mostruose eredità e i mostruosi redditi che posseggono. Chi ha il conto in banca gonfio ha vinto (e tutto gli è accordato), altrimenti ha fallito. Un darwinismo sociale che ha forgiato i nostri anni, la cui narrazione però è fuffa tutta, come si vede nel film stesso – e qui mi taccio per evitare spoiler. 

    Anche perché il capitalismo finanziario non è una tendenza delle metropoli americane. Berlusconi, d’altro canto, è stato un fenomeno sociale (l’imprenditore-lavoratore-politico self-made man, mica uno chiacchiere&distintivo) che ha anticipato il trumpismo attuale, ma è nato in concomitanza con l’emergere dell’impero economico di Trump – negli stessi anni che fanno da scenografi al film. PS: il titolo, Due poltrone per uno, nasce proprio dalla constatazione che il potere economico, quando non riesce a dominare quello politico, invece di sforzarsi di influenzarlo, può direttamente accaparrarselo, con una leva di risorse che falsa il confronto democratico. Così dalla «rivoluzione dei manager» del capitalismo socialdemocratico si è passati alla reazione dei guru della finanza nel neoliberismo. Questa cosa non la si dice nel film, anche perché era solo al principio la tendenza che si sarebbe estremizzata solo anni dopo con, appunto, i vari Berlusconi e Trump e i loro cerchi magici di amministratori privati ficcati nel pubblico.

    L’ipotesi 1 è che, sulla scia del trash commerciale, si siano “apprezzate” le (poche, invero) scene di nudo femminile – ma questo non giustificherebbe l’iniziale riproposizione continua. L’ipotesi 2 è che Mediaset abbia usato – involontariamente o meno non si sa, anche perché ormai la programmazione del film è “tradizione” – Una poltrona per due semplicemente come commedia, satira senza riflessi politici. E così è percepita da buona parte del pubblico, che ha ormai interiorizzato il dettame neoliberista e il «there is no alternative» al capitalismo, berlusconiano o meno.

    Questa non è un’ipotesi infondata. Pur in contesti diversi, basti pensare a certe canzoni. Immaginate: siete a una festa, o in discoteca, o in spiaggia, e partono brani del tipo Vieni a ballare in Puglia o Moonlight Shadow o Maracaibo. Canzoni usate per ballare, perlomeno rallegrare l’atmosfera. Ci fosse una sola frase per cui rallegrarsi in questi brani! Eppure, per dire, anche complice il ritmo musicale (anche qui, dissonante col testo; vedasi la sequenza introduttiva di cui scrivevo prima), non scatta una rivolta sociale quando la voce registrata di Caparezza parte dalle casse. 

    Se chiedessimo in giro, generalmente queste sono canzoni festaiole, presentate come passatempo e non come opere “impegnate” (che sarebbero barbose, uff): stesso discorso con Una poltrona per due, allora. Fila l’ipotesi anche per voi?

    Deny – Defend – Depose 

    «La libertà è una luce per la quale molti uomini sono morti nelle tenebre», recita una scritta su un monumento ai caduti ripreso nella sequenza introduttiva di Una poltrona per due. Ovviamente è un monumento per i morti in guerra, ma le immagini portano a pensare che ci sia una guerra più silenziosa, più legittimata, eppur terribile. 

    Senza scomodare teorici sovversivi, vediamo nelle parole di Warren Buffet (di cui “rosso” non è nemmeno il conto in banca, anzi quello è il meno rosso tra tutti gli attributi): «Vero, c’è lotta di classe. Ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo questa lotta, e stiamo vincendo.» Sic et simpliciter

    Anni e anni di pensatori neoliberisti che predicavano la non sussistenza della lotta di classe, che in democrazia tutti abbiamo lo stesso potere e la stessa influenza, che volere è potere, che i ricchi servono e sono i buoni – poi arriva un ricco, bianco e maschio, uno di quelli che questi pensatori hanno perso (nel senso di sprecato) la vita a difendere, e li smonta in due secondi. Quindi, parlando di lotta di classe, di ineguaglianza, di America e di ricchi non possiamo non citare il caso dell’omicidio dell’amministratore delegato di United Healthcare. (No, non nomineremo questo AD per nome: resterà anonimo come tutte le vittime causate dal sistema sanitario statunitense.) 

    Questo omicidio è l’evento più ironico e iconico del 2024 negli USA. Molto più delle elezioni presidenziali, dei referendum statali e dell’immagine imperiale che Washington vuole mostrare, l’omicidio dell’AD di una delle maggiori compagnie assicurative sanitarie ha svelato alcuni ingredienti fondamentali del sentire popolare, ripulito dagli orpelli elettorali e dalla dimensione di potenza.

    Innanzitutto, è evidente una spaccatura tra classi umili ed élite politiche – ma nessuna sorpresa fin qui. Più notevole è che elementi delle classi medio-alte, in teoria beneficiarie del sistema socioeconomico, si rivoltano così platealmente (un omicidio, a confronto le Pantere Nere erano moderate) a sangue gelido contro esponenti delle classi proprietarie. 

    Ecco da dove esce Luigi Mangione, con il suo notevole quarto d’ora di notorietà, un «eroe accelereazionario» – definizione fantastica, perché Mangione è un conservatore, benestante, uomo, potenzialmente il primo beneficiario eppure (causa un problema di salute) è diventato traditore della sua classe, finendo come eroe di chi, nella gerarchia sociale, era sotto di lui. Ma ha tradito per mancanza di privilegio, non per solidarietà popolare.

    Non ci sono novità se per la vulgata tutti gli eroi sono giovani e belli – non è vero, ma anche i greci antichi ci credevano, e crearono un termine apposito: kalokagathìa. È rilevante però che i ricchi siano improvvisamente tornati ad avere paura: è l’odio di classe ricambiato che auspicava Edoardo Sanguineti

    Beh, non proprio, altrimenti si avrebbe un’avanguardia delle classi inferiori e non un eroe accelereazionario, «un Robin Hood per zoomerini» un po’ mal riuscito nella biografia. Anche perché, prima della cattura di Mangione come sospettato, circolavano alte aspettative sull’assassino/vendicatore/giustiziere (non molto) mascherato: tanti oltreoceano si aspettavano un Gaetano Bresci, invece si sono trovati un discepolo di Ted Kaczynski.

    Nemmeno la paura dei capi per i subordinati è una novità. Quindi, storicamente guardando, se gli emarginati solidarizzano con Robin Hood non c’è da scandalizzarsi. Specie se, nonostante e anzi proprio causa le recenti grandi crisi, la disuguaglianza in favore dei super ricchi è aumentata senza freni. Per cui, in mancanza di poteri pubblici efficaci, nulla di sorprendente se una società iperarmata si è trovata in catarsi con l’omicidio di un uomo che, nel suo ruolo civile, ha avallato la sofferenza o la morte di tanti cittadini per il profitto dell’azienda.

    È vero che qui qualcosa del giochino ideologico s’è rotto, e ora il timore potenziale è diventato nuda realtà. È ancora più rilevante, però, che Mangione – non ancora condannato, peraltro – è stato celebrato senza assalti al castello dello sceriffo di Nottingham: sono i social e Internet ad aver nutrito, in larga parte e senza che le piattaforme potessero reprimere adeguatamente, il fenomeno della mitizzazione di questo allievo di Unabomber. 

    E questa impunità, in una valanga di contenuti, fa paura ora più di una marcia in piazza: perché è imprevedibile, inattesa e inattendibile, non ha direzione. E agisce quando e come vuole, senza che il cannone dell’incrociatore Aurora dia il segnale. Oppure, non porta a nulla – ma l’imprevedibilità logora più della lotta diretta.

    Conclusioni

    Il finale, comunque, è molto meno radicale di quanto la fantasia del cosmo sovversivo spera. È come in Una poltrona per due: è nel sistema stesso che vincono gli eroi, qualcuno a soffrire rimane, la redenzione universale non arriva. La lotta di classe, disorganizzata ma solo pensata, è scambiata dagli eroi con la lotta per i privilegi.

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