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    È guerra tra Israele e Iran: la “strategia della decapitazione” messa in atto da Netanyahu

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    Sono meno fiducioso ora di quanto lo sarei stato un paio di mesi fa. Qualcosa è successo a loro, ma io sono molto meno fiducioso che un accordo possa essere raggiunto“. Con queste parole, pronunciate poche ore prima dell’attacco israeliano contro Teheran, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha lasciato intendere un crescente pessimismo. Uno scetticismo che, come evidenziato anche dalla stampa internazionale, aleggiava da settimane. 

    Il progressivo ritiro del personale diplomatico statunitense dalle ambasciate in Medio Oriente ha rappresentato il primo segnale tangibile di una possibile escalation, che nella notte si è concretizzata in un’azione militare su vasta scala.

    Le origini storiche dello scontro

    Sarebbe storicamente inesatto affermare che i rapporti tra Israele e Iran siano sempre stati improntati a ostilità militare e rivalità esistenziale. Al contrario, nel corso del XX secolo, i due Paesi hanno attraversato fasi di cooperazione, persino di una certa sintonia strategica.

    Durante l’epoca Pahlavi, l’Iran fu tra i primi paesi a maggioranza musulmana a riconoscere, de facto, la legittimità internazionale di Israele. 

    Pur sostenendo, in sede ONU, una soluzione federale e binazionale – condivisa, tra gli altri, da Jugoslavia e India – con un Parlamento comune articolato in cantoni arabi ed ebraici, in opposizione alla risoluzione dell’Assemblea Generale, Teheran mantenne rapporti pragmatici con lo Stato ebraico, dettati da interessi geopolitici più o meno comuni. Questa collaborazione si interruppe bruscamente nel 1979 con la rivoluzione islamica guidata dall’Ayatollah. La caduta della monarchia e l’instaurazione di una teocrazia sciita segnarono la fine dei rapporti bilaterali ufficiali e l’inizio di una “guerra fredda regionale”. 

    Tuttavia, a partire dagli anni ’90, con la fine della Guerra Fredda e il conseguente riassetto degli equilibri geopolitici globali, la posizione israeliana mutò significativamente. Gerusalemme iniziò a perseguire con maggiore determinazione il ruolo di potenza dominante nella regione, percependo l’Iran come il principale fattore destabilizzante. 

    Teheran, da parte sua, rispose rafforzando il proprio sostegno alle milizie sciite in Iraq e Siria, all’organizzazione libanese Hezbollah, al movimento sunnita Hamas – in particolare alla sua ala militare, le Brigate al-Qassam – e agli Houthi in Yemen. Il famoso “Asse della resistenza”. Questa strategia di proiezione regionale ha alimentato una rivalità strutturale, che nel tempo si è trasformata in un conflitto esistenziale, non dichiarato ma profondo, tra due visioni opposte del futuro del Medio Oriente.

    Lo scoppio della guerra

    Nella notte del 13 giugno, Israele ha lanciato un attacco aereo su vasta scala contro obiettivi strategici in territorio iraniano, nell’ambito dell’operazione denominata Operation Rising Lion. Circa un centinaio di siti sono stati colpiti, in particolare le installazioni legate al programma nucleare iraniano (che rappresenta il nocciolo della questione), tra cui gli impianti di Natanz, Teheran, Khondab e Khorramabad. L’operazione ha incluso anche la distruzione di basi missilistiche e di residenze appartenenti a figure di vertice dell’apparato militare e politico iraniano.

    Tra le vittime confermate figurano Fereydoon Abbasi e Mohammad Mehdi Tehranchi, scienziati chiave del programma atomico iraniano, il capo di Stato Maggiore delle forze armate, Mohammad Bagheri, e il comandante dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC), Hossein Salami

    L’accuratezza e la simultaneità degli attacchi lasciano chiaramente intendere l’adozione da parte israeliana di una strategia ben nota: quella della decapitazione, già applicata in passato nei confronti di attori ritenuti esistenzialmente pericolosi per la sicurezza dello Stato ebraico.

    I nemici “decapitati”

    Negli ultimi mesi, le cronache internazionali hanno documentato una lunga serie di eliminazioni mirate condotte da Israele contro figure di vertice di Hezbollah, Hamas e, più recentemente, del movimento Houthi in Yemen. Pur criticata da alcuni analisti come tattica limitata – poiché i vertici eliminati tendono a essere rapidamente sostituiti – questa strategia produce un effetto immediato di paralisi decisionale e disorientamento all’interno delle strutture militari e paramilitari colpite. In queste ore di vuoto di comando, Tel Aviv può ottenere vantaggi operativi decisivi.

    Oltre all’efficacia militare, l’attacco invia un messaggio politico inequivocabile: nessun obiettivo strategico iraniano è al sicuro. Israele dimostra così non solo la capacità di proiezione e precisione della propria forza aerea, ma anche una straordinaria efficacia sul piano dell’intelligence. Il successo dell’operazione rivela la disponibilità di informazioni dettagliate non solo sull’ubicazione dei vertici militari e scientifici iraniani, ma anche sulla rete infrastrutturale del programma missilistico di Teheran, inclusi sistemi di difesa, bunker e centri decisionali.

    Perché attaccare proprio ora?

    Non ci sono molti dubbi: quando un paese come l’Iran – potenza militare regionale – conduce attività nucleari in segreto e continua ad arricchire uranio senza trasparenza, è legittimo sospettare un fine militare, in particolare la progettazione di testate atomiche.

    Non è solo Israele a lanciare l’allarme: ieri l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha approvato una risoluzione che denuncia il mancato rispetto degli obblighi nucleari da parte di Teheran. La Cina (attenta a tutelare i propri interessi energetici derivanti dai Paesi del Golfo) e la Russia hanno votato contro, con Mosca che continua a sostenere l’Iran nonostante divergenze strategiche evidenti. 

    Secondo l’AIEA, inoltre, l’Iran potrebbe oggi costruire tra sei e nove ordigni nucleari. Un recente rapporto dell’Agenzia segnala test esplosivi compatibili esclusivamente con lo sviluppo di testate e vettori militari, condotti in siti non dichiarati. Un’indicazione chiara del possibile avanzamento del programma atomico iraniano verso fini bellici.

    Cosa fare? 

    Paradossalmente, uno degli attori internazionali che potrebbe subire le maggiori ricadute negative da un’escalation tra Israele e Iran è proprio l’Unione europea. Dallo scoppio della guerra in Ucraina, Bruxelles ha intrapreso una corsa contro il tempo per diversificare le fonti energetiche, riducendo la dipendenza dal gas russo e rafforzando i legami economici e diplomatici con i Paesi del Golfo. Tra questi, il Qatar è divenuto un partner strategico per diversi Stati membri, inclusa l’Italia, nella fornitura di gas naturale liquefatto (GNL).

    Questa crisi potrebbe offrire all’Europa un’opportunità: quella di riaffermare una propria centralità politica nel quadrante mediorientale, ponendosi come attore diplomatico autorevole, capace di tutelare gli interessi energetici e geopolitici dell’intero continente.

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