Non si ferma la violenza nei confronti del genere femminile: Michelle Causo, Francesca Deidda, Pierina Paganelli, Lorena Vezzosi sono solo alcuni dei nomi delle donne uccise per mano del partner nell’ultima settimana. Potremmo risalire a centinaia di altri nomi considerando i mesi precedenti.
Presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale, il Servizio Analisi Criminale effettua, anche attraverso l’estrapolazione di dati statistici, l’analisi di tutti gli episodi delittuosi che integrino fattispecie riconducibili alla violenza di genere. Particolare attenzione viene dedicata agli omicidi volontari attraverso lo studio e l’analisi di tutti i dati interforze acquisiti dalla Banca Dati delle Forze di polizia, che vengono confrontati con le informazioni che pervengono dai presidi territoriali di Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri.
Alla data odierna, relativamente al periodo 1 gennaio – 7 luglio 2024, sono stati registrati 157 omicidi: 55 vittime donne, di cui 49 uccise in ambito familiare/affettivo. Di queste, 28 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. La domanda da porsi sarebbe “perché”? Purtroppo questo accade raramente.
I quotidiani, i telegiornali, i social, molto spesso nel raccontare questi episodi mettono in fila ragioni che tentano di giustificare l’atto: si parla di “lite familiare”, di “litigiosità”, di “incomprensioni”, derubricando e attribuendo così facendo minore importanza agli episodi di violenza. Si assiste altresì all’utilizzo di costrutti semantici subdoli: dolo d’impeto, scatti d’ira, gelosia, esplosione di rabbia; concetti stereotipati e derivanti da convincimenti personali. Sentiamo anche parlare di raptus: non un uomo violento, ma un uomo che ha agito in preda alla gelosia. Un uomo mite, un lavoratore, è stata la donna ad indurlo all’esasperazione. Un uomo distrutto che chiede perdono per l’accaduto. Un delitto d’impeto, non premeditato: così viene frequentemente raccontato.
La causa principale di questa violenza misogina e sessista rappresenta l’esito di pratiche sociali che vedono l’uccisione delle donne in quanto tali.
Come parlare di femminicidio
La matrice culturale, strutturale e patriarcale del femminicidio viene completamente dimenticata quando è necessario scrivere o parlare della morte di una donna per mano di un uomo.
Diana Russell, criminologa femminista, sostiene che: “tutte le società patriarcali hanno usato – e continuano a usare – il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne”. Marcela Lagarde, antropologa americana, sostiene che vi sia un problema strutturale che riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere;esso va ad annullare la donna nella sua identità e libertà non soltanto fisicamente, ma anche nella sua dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica. Questo problema, come tale, va nominato, reso visibile attraverso precise parole: è così che dovremmo parlare di violenza contro le donne, abbandonando la retorica dell’amore romantico e della gelosia come movente per giustificare tali abominevoli atti. Correndo il rischio, così facendo, di deresponsabilizzare l’autore del reato e permettere che operi un processo di vittimizzazione secondaria della donna.
Vittimizzazione secondaria
“Quando la donna non viene creduta“. È il giudizio nei suoi confronti, è mettere sullo stesso piano la donna che si difende e l’uomo che aggredisce. È far sentire la donna responsabile di quello che ha vissuto, è il non considerare grave la violenza psicologica, è considerare una sopravvissuta una vittima senza speranza, o una donna che provoca gli uomini. È la minimizzazione del reato di violenza quando questa è agita da un uomo verso una donna. E’ darla per scontata: un concetto che si basa sullo stereotipo per cui una donna non solo è diversa anatomicamente da un uomo, ma che questa diversità la metta poi su un piano inferiore e che quindi quello che le può succedere è già inscritto nel suo DNA.
E’ intervistare una sopravvissuta ledendo la sua intimità e scavando nel suo passato. Vale la pena ricordarlo anche in questa sede, il giornalista ha l’obbligo di doversi attenere al proprio codice deontologico non fornendo notizie o pubblicando immagini di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona. Né, tantomeno, soffermandosi su dettagli di violenza. Nell’esercitare il diritto/dovere di cronaca, il giornalista è tenuto dunque a rispettare la persona, a tutela del diritto alla non discriminazione.
Purtroppo episodi di questo tipo accadono tutt’oggi proprio quando la vittima sceglie di denunciare, di chiedere aiuto per uscirne. Già nel 2006, la Commissione Europea aveva definito la vittimizzazione secondaria come quella “che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”. In sostanza, le stesse autorità chiamate a reprimere il fenomeno violento non lo riconoscono, lo sottovalutano e non adottano nei confronti della vittima le misure necessarie per proteggerla. Di fatto, la vittimizzazione secondaria sposta l’attenzione dall’aggressore alla vittima: la persona che ha subito la violenza viene ritenuta in qualche modo responsabile, come se il sopruso fosse una diretta conseguenza di un suo comportamento e non più della sola condotta del violento.
Basta citare le motivazioni di alcune sentenze di assoluzione dai reati di violenza sessuale per capire quanto sia forte la vittimizzazione secondaria nei giudizi penali. Nel 2022, la Corte di Appello di Torino ha assolto un uomo perché ha ritenuto che la porta socchiusa lasciata dalla ragazza fosse “un invito a osare”. Sempre a Torino, nel 2017, la denuncia di stupro di una donna non è stata ritenuta attendibile perché la vittima “aveva detto basta, ma non aveva urlato”. Il dire “basta” non è stato considerato sufficiente dai giudici per parlare di violenza sessuale. Sentenze come queste dimostrano che ciò che è stato realmente giudicato in questi processi non è tanto la condotta dell’aggressore, quanto più quella della vittima.
È recente a questo proposito la pronuncia della Corte di Cassazione, che ha considerato lo stupro come tale anche se la vittima non reagisce; principio, quest’ultimo, più volte affermato ma che molto spesso viene ignorato dalle Corti di merito. Seguendo questa linea non si può chiedere alla vittima – come molto spesso avviene – che dimostri di essersi opposta o di aver cercato di contrastare con veemenza l’aggressore, per vedersi riconosciuto un diritto. Ciononostante , la donna è chiamata spesso a doversi discolpare oppure a provare di essere stata realmente stuprata. Una volta deciso di denunciare, l’essere “creduta” diventa un percorso difficilissimo.
Riconoscere la radice culturale come motivazione
Oggi più che mai è necessario diffondere una giusta definizione del fenomeno, riconoscendo correttamente le forme della violenza e, parimenti, attenersi ad una definizione di violenza come riflesso delle relazioni di potere diseguali tra uomini e donne. Nel riportare casi specifici, i media dovrebbero evidenziare le motivazioni legate al genere, all’eccesso e all’abuso di dominio nelle relazioni, oltre che le radici culturali che hanno portato ad atti persecutori e discriminatori o ad esiti nefasti degli stessi, inserendo la notizia in una narrazione dal contesto più ampio. Contesto che, dunque, riveli le diseguaglianze subite dalle donne in quanto tali; soltanto in questo modo sarà possibile approfondire quanto tali discriminazioni siano un problema sociale ricorrente, ma anche evidenziare la quotidianità e la pervasività della violenza subita. Si dovrebbe inoltre evitare ogni eccesso nel racconto e l’uso ricorrente di parole quali shock, raptus, gelosia, follia, eccesso di amore: tutte espressioni che possono giustificare simbolicamente la violenza, travisando l’accaduto.
Gli stereotipi di genere costituiscono il substrato culturale della discriminazione e, in ultima analisi, del femminicidio; sono i presupposti che generano e rendono possibile quest’ultimo. È indubbio che questi riguardino anche la narrazione maschile, ma è altrettanto innegabile che sulle donne agisca un immaginario discriminatorio numericamente più rilevante. Di fronte al femminicidio “le parole ragionevoli cadono nel vuoto”: in questo caso non c’è soltanto l’atrocità di un omicidio, ma si tratta di un omicidio di genere, di un omicidio culturale, che ha richiesto nel tempo una categoria a sé stante per essere affrontato. Se in parte è cieco, privo di ragionevolezza, di sensatezza, di compiutezza, di senno, in gran parte è culturalmente costruito e fondato su una sua storia, quella del patriarcato. Da qui l’esercizio del possesso da parte dell’uomo sulla donna, almeno fino ad un centinaio di anni fa.
Dicendo femminicidio si delinea un perimetro specifico: quello dell’omicidio di genere. Non è solo la morte provocata da qualcun altro, è la morte di donne che, quasi nella totalità delle volte, prima hanno subito violenza e poi hanno perduto la vita per mano di chi – più o meno consapevolmente – si è arrogato il diritto di vederle vive o morte, libere o schiave delle botte. Decedute colpevoli di essere donne, oggetto di un possesso che le vuole velate e spente. Ferme e controllate a vista. È questa la retorica del possesso che, nolente o volente, è filtrata fin sotto la nostra pelle.
Michela Murgia, per L’Espresso, ha scritto che “la morte delle donne per ragioni patriarcali è il frutto di un clima culturale diffuso e sul lungo periodo si combatte solo con strumenti educativi contro gli stereotipi di genere, attraverso progetti nelle scuole sin dalla prima infanzia e leggi per abbattere la discriminazione delle donne in ogni ambito. In Italia però, a fronte di una resistenza culturale fortissima anche politica sulla questione dei ruoli di genere, si è sempre preferito lasciare questa strada alla sensibilità occasionale e variabile delle realtà locali, scegliendo invece come via istituzionale quella dell’inasprimento delle pene alla fine della catena della violenza, cioè quando delle donne ci sono già i cadaveri”.
L’educazione sentimentale e relazionale è fondamentale, affinché venga riscritta e raccontata ex novo la genealogia sana delle relazioni e del rapporto con l’altra persona. Vanno progressivamente cancellati – e sostituiti con consapevolezze paritarie e inclusive – tutti quegli automatismi che danno per scontato la ragionevolezza e l’accondiscendenza del genere femminile.