Dopo un quarto di secolo di attesa, Il gladiatore II ha trovato una folla enorme ad attenderlo in sala. E ha ricordato un argomento che la storiografia recente sembra ignorare: il ruolo – e il numero – degli schiavi nelle economie mediterranee antiche. Con echi (silenziosi) anche nell’attualità.
Per iniziare: un po’ di contenuto
La trama della “bilogia” dei Gladiatore di Ridley Scott è, in entrambi i film, abbastanza tranquilla nei suoi punti principali. Cercherò di spiegarla senza togliere il gusto di vederli al lettore.
Innanzitutto c’è il protagonista, eroico e dedito alla famiglia com’anche alla patria; per entrambe combatte coraggiosamente. Malamente gli capita di cadere in disgrazia – traditore del nuovo principe nel primo caso, prigioniero di guerra nel secondo – finendo così, viste le doti combattive e il sadico odore di vendetta dei capi romani, a fare il gladiatore per qualche facoltoso “imprenditore” intrallazzato in politica, con una moralità di fondo nel primo film, senza scrupolo alcuno nel secondo. Alla fine – spoiler! – il gladiatore sfida ad armi il villain principale (ce ne sono tanti, solo uno ne rimarrà), vince e ripristina l’onore di Roma.
Il villain principale è invece una sorta di wannabe despota con uno stuolo di portaborse carrieristi e di collaboratori tenuti sotto col terrore. In tal senso, la trama dei Gladiatore risente molto dell’epoca seguita alla fine della Guerra fredda: il predominio di un equilibrio istituzionale, l’apparenza di rappresentatività del popolo, la presenza di tiranni legalizzati che minano la dignità di comunità rispettabili. È sempre tipico dell’epoca, che è per molti aspetti ancora la nostra, il fatto che questa rispettabilità della forma si basi comunque su una sostanza che è quella del «modo di produzione bellico».
Dato che tutta la bilogia, al di là delle romanticherie, è perfettamente nello spirito di questo modo di produzione, urge delucidare meglio il concetto.
Il modo di produzione bellico
Parlare di «modo di produzione» significa usare una terminologia marxiana. Il tedesco scriveva di modi di produzione intendendo l’insieme di forze produttive e rapporti di produzione. Le forze di produzione – scusate l’excursus, ma altrimenti non ci si intenderà – sono: forza lavoro (le persone che lavorano), mezzi di produzione (gli strumenti e le infrastrutture adoperate) e le conoscenze tecniche. I rapporti di produzione, invece, sono i rapporti sociali – e quindi gerarchici, con differenziali di potere che indirizzano l’organizzazione politica della società medesima – determinati dal possesso o meno (e, in termini più “eterodossi”, dal ruolo nella catena produttiva) dei mezzi di produzione.
È un concetto molto versatile, utilizzabile per qualsiasi epoca storica. Sebbene Marx non l’abbia analizzato con precisione, anche il Mediterraneo al tempo della Grecia e di Roma tra il VI secolo aev (avanti l’era volgare, equivalente laico di «aC») e il V secolo ev (equivalente di «dC») sviluppa un suo modo di produzione, che Luciano Canfora – nel libro Guerra e schiavi in Grecia e a Roma – definisce appunto «bellico».
Cosa lo caratterizza? In queste società, alla base vi è la guerra, ma non come la intendiamo noi oggi. Noi siamo abituati ai droni, le atomiche, il blitzkrieg, i carrarmati, i missili, i campi di concentramento e i mitra, che creano un immaginario e una serie di tattiche da guerra di sterminio, in cui l’annichilimento del nemico o perlomeno delle sue possibilità materiali di sopravvivenza è centrale.
La guerra “antica” (e uso questo termine con riferimento al periodo detto prima) era invece non un’ultima istanza, bensì il carburante stesso dell’economia. Guerra-rapina-guerra è il ciclo produttivo “antico”, e il carattere bellico è così quello della guerra di rapina. Questo perché la guerra non totale permetteva da un lato di creare comunità tributarie, ma dall’altro era il canale di creazione della forza lavoro, quella schiavile, che rendeva possibile la maggior parte delle attività produttive su “larga” scala.
L’intera area mediterranea era un enorme mercato di schiavi, anch’essi “prodotti” tramite varie opzioni (debiti come a Roma, casta di nascita come a Sparta, prigionieri di guerra) di cui quella bellica era la più redditizia e quella quantitativamente conveniente, spostando anche masse di centinaia di migliaia di persone – ad esempio dopo la conquista della Dacia da parte dell’imperatore Traiano.
Poi, gli schiavi erano venduti in appositi luoghi di smercio – che potevano essere anche intere isole, per esempio Delo – controllati da classi di proprietari, provenienti da tutto il Mediterraneo (i fenici erano famosi in questo settore), con businesses ad alto rischio. Alto rischio comprensibile: l’ammassare migliaia di persone in catene è facilmente foriero di rivolte, anche sanguinose e di difficile repressione. Quando ciò accadeva in tempo di pace, le autorità pubbliche si alleavano coi proprietari, se non erano direttamente i proprietari; quando accadeva in tempo di guerra, il nemico prometteva la libertà agli schiavi in rivolta.
Non per spirito democratico o oligarchico (d’altronde Atene era una maggioranza di schiavi con una minoranza sparuta di liberi): banale opportunismo politico e militare.
Non si stava meglio quando si stava peggio
Spogliando i territori da chi era adatto al lavoro schiavile, ci si spogliava anche delle sue risorse. Miniere, campi, materiali, tesori, mercenari, flotte: i mezzi di produzione cambiavano padrone. Se da una parte le guerre “antiche” di rapina possono sembrare più umane (perché lo sterminio deve essere legato alla sottomissione, non è un fine in sé bensì un mezzo per arrivare alla produzione di schiavi), dall’altra questa è più un’illusione pseudoumanitaria moderna. Sarà per il mito degli antichi – Atene democratica, Sparta eroica, Roma gloriosa e così via – o perché stacchiamo il concetto della guerra da quello dell’economia o altro; sta di fatto che, però, questo modo di produzione rendeva le popolazioni merce, al livello degli animali da soma o degli aratri.
Mezzi di produzione anch’essi, più che forza lavoro. Questo non era sfuggito nemmeno a Marx. Analizzando l’evoluzione delle società “antiche”, il tedesco notava come le classi patrizie e i liberi plebei si coalizzavano contro le rivolte degli schiavi, inibendo il potenziale trasformativo di questi ultimi. Come mai? Per Marx, i rapporti di produzione “antichi” creavano non un proletariato, bensì un sottoproletariato (che esiste anche in altri modi di produzione, comunque, ma non in questa forma così massiccia e fondamentale), disconosciuto dal resto della società proprio come insieme di esseri umani, persone con un’anima e una volontà autonome.
Questa disumanizzazione permetteva sì la possibilità di uno sfruttamento al massimo e su ampissima scala, ma d’altronde rendeva possibile un’instabilità di fondo. E se gli schiavi smettono di lavorare, che succede? Se la rivolta funziona, che succede? Se gli schiavi vincono, se diventano i nuovi protagonisti della storia, che succede?
La storia non ci ha concesso, per vari motivi, occasioni di rivolte al 100% vincenti. E, per quelle meglio riuscite, la storiografia era comunque scritta da liberi: noi posteri dobbiamo sperare nella loro obiettività e nel loro senso di umanità.
Per concludere: il senso dell’articolo
Ok, ma perché scrivere un articolo sul modo di produzione bellico partendo dalla bilogia del Gladiatore? Per diversi motivi, in verità.
Innanzitutto, perché la bilogia mi è piaciuta. A prescindere dalle correzioni storiciste, dal puntualismo degli eventi reali – che evidentemente non erano obiettivo primario del regista, al quale bastava un contesto verosimile su cui impiantare una storia, altrimenti avrebbe diretto un documentario. Il professor Ray Laurence è d’accordo con me: «Se accettiamo che il film sia tale e non Storia, Il gladiatore II è estremamente divertente e per molti versi ha avuto successo nella sua rappresentazione visiva di Roma». Quindi, l’ho scritto per fornire un po’ di contesto ulteriore a chi come me ha apprezzato.
Poi, perché chi invece mitizza le ere eroiche e gloriose dell’antichità non ha visto che l’apparenza dell’epoca. Perciò cade proprio nel tranello narrativo del protagonista, che si erge a salvatore di una società di cui, in realtà, accetta i presupposti – il modo di produzione bellico, il sottoproletariato schiavile e le guerre di rapina come strumento di sviluppo economico. Quindi, per fornire uno strumento di lettura un po’ più realistico dei monumenti in rovina tra i fori o sulle acropoli – realizzati per ordine delle classi proprietarie e frequentati dai pochi liberi.
Se qualcuno ci vuole vedere parallelismi col presente, ce li veda pure. Sempre Laurence, riguardo al secondo film, scrive che «la trama generale collega la tirannia e la libertà ai gladiatori, con apparentemente tutti i protagonisti che cercano di consentire la distruzione di Roma e solo Lucio può ristabilire “il sogno di Roma” e una “nuova repubblica” (che storicamente non è mai avvenuta), se solo può sfidare la morte. Si tratta di una trama per il 2024, con vari Stati autocratici e/o democratici, con politici e tiranni decisi a sopravvivere a spese del popolo e dello Stato».
Se qualcuno vuole immischiarsi in una lettura un po’ più spinta, anche considerando gli imperialismi sfacciati del trentacinquennio che segue la Guerra fredda, è il benvenuto.
Infine, e questo è più uno spunto rapido, perché elementi di modo di produzione bellico non sono mai finiti. Elementi, come elementi di altri modi di produzione, sono presenti in ogni epoca. Elementi come per esempio i prigionieri russi reclutati come soldati da essere inviati al macello in Ucraina, nuovi sottoproletari, in modo da tener lontani dalle trincee i cittadini delle metropoli della Russia europea. Parallalemente, in modo schiavile, i detenuti nelle carceri statunitensi, le quali – sorpresa! – spesso sono gestite da aziende private o addirittura sono di proprietà privata, e lo Stato ci mette solo il personale armato – vengono sfruttati in lavori forzati, con paga più che misera se non inesistente, senza sicurezza, senza garanzie, senza possibilità di scegliere l’impiego e, il che è a questo punto scontato, negoziare le condizioni.
E mi sono fermato a due nazioni potenti e industrializzate: ma quanto si potrebbe parlare del traffico di esseri umani nei ricchi Paesi del Golfo Persico, che ricreano minoranze di cittadini con pletore maggioritarie di schiavi attratti con l’illusione o la minaccia dall’Asia e dall’Africa, proprio come nuove città “antiche”! E siamo solo agli esempi.
Intere masse di persone sono tutt’oggi usate, in un modo di produzione differente, secondo schemi antichi. Diciamoci la verità: senza di esse, il resto del sistema produttivo reggerebbe così com’è ora?
20250016