«Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo»: con questa frase di Antonio Gramsci, presa da un importante passo del Quaderno 6, si apre La grande ambizione.
Un film che – in positivo o negativo, volente o nolente, compreso o bistrattato – ha lasciato un piccolo segno nel microcosmo della sinistra italiana.
Non è tutto Yin e Yang
Qui non parleremo del film in sé, utile e giustamente in tempo per mostrare una figura-chiave come quella di Enrico Berlinguer. Bello, ben fatto, coinvolgente, con attori e scenografi più che adeguati, una fotografia accattivante e un ritmo che elimina il paternalismo di un documentario recitato. Anche perché su queste caratteristiche, per così dire, “tecniche” si esprimono positivamente tutti i commentatori, a prescindere dall’orientamento politico.
Ecco, l’orientamento: il caleidoscopio di quest’opera. Se Kant scriveva che la realtà che vediamo è come se passasse dalle «lenti blu» delle nostre categorie mentali (e storico-sociali), proprio su queste lenti dovremmo concentrarci per capire il film diretto da Andrea Segre.
Ci aspetteremmo, in un modo lineare e assai tranquillo, che La grande ambizione sia un film di sinistra, fatto da gente di sinistra per gente di sinistra e che riguarda gente di sinistra. Sì, no e nì a tutte queste aspettative. Abbiamo una visione molto manichea della politica partigiana (nel senso che piglia posizione e non si limita a “gestire”): destra/sinistra, bianco/nero, con/contro, noi/loro.
Le reazioni – quelle non tanto mainstream, ma più rappresentative del periodo raffigurato – a questo film aprono uno squarcio, una zona grigia che per noi è eresia. Ma per i personaggi degli anni Settanta – e il film è ambientato esattamente dal 1973 al 1978 – questa zona grigia era pane quotidiano, normalità, persino (per i più radicali, da Rauti a Moretti e con gli ‘estremisti di centro’ del Golpe bianco) necessità.
Noi oggi, comodi in sala, giudichiamo la sinistra politica un monolite, la vediamo con un po’ di nostalgia, perché siamo consci che nel quarantennio tra la morte di Berlinguer e noi essa si è divisa dalla sinistra sociale. E quindi possiamo solo odorare la memoria, addirittura solo la memoria di altri – dato che molti cinquant’anni fa erano piccoli o proprio spermatozoi.
Ignoriamo però – un po’ per la legittima nostalgia, un po’ perché ancora oggi gli Anni di piombo non hanno trovato la loro sistematizzazione storiografica (e come si potrebbe, con stragisti e collusi ancora in giro) – il fatto che la sinistra sociale e quella politica non erano in nozze felici neppure all’epoca mitizzata del cinghiale bianco, durante la segreteria di Enrico Berlinguer.
Concretamente parlando
Giulio Calella titola: Berlinguer, la grande rinuncia. La storica Vanessa Roghi puntualizza: il film è sì storico, ma la pretesa non è quella di farne storiografia, bensì di guardare la realtà del tempo con le lenti del segretario del PCI. Enrico Palandri è più netto nel suo pezzo: Enrico Berlinguer e la grande illusione. Aldo Torchiaro invece spunta dall’altra parte, e titola: “La grande ambizione” di cancellare i riformisti, da Napolitano a Macaluso a Craxi, le figure del film-fantapolitico di Segre e Germano – che, ammettiamolo, sembra un titolo un po’ too much sia come lunghezza che come disprezzo.
Insomma, se in superficie il capo comunista sardo va a genio a tutti nell’universo polimorfo della sinistra (come i gusti libidici del bambino di Freud), scavando tra le recensioni politiche si scopre che ognuno ha qualcosa da puntualizzare. E gli articoli citati non vengono certo da Libero o da La Padania, anche se quest’ultimo probabilmente ha opinioni più carine sui comunisti di Torchiaro e dei giornali centristi.
Al di là del fatto che i titoli sono tutti giochi di parole sul film, li accomuna anche una generale insoddisfazione verso il PCI del compromesso storico. Per chi diceva che era troppo poco coraggioso in senso rivoluzionario, chi in senso riformistico – o «migliorista» come si diceva.
L’accoppiata Moro-Berlinguer raggruppava da una parte un ex presidente del Consiglio e ministro che non era del tutto padrone in casa propria, dall’altra un politico di professione ufficialmente leader di un’opposizione più multicolor di quanto pensiamo – e più di quanto raffigurato nel film, che come giustamente si sottolineava non vuole essere un manuale di Storia ma uno sguardo.
I giovani del ’68 e del ’77 criticavano la poca radicalità. I riformisti rigettavano la vicinanza (pur calante) con l’Unione Sovietica. Le cellule del partito, composte da operai, erano strette tra le accuse di antidemocrazia e il rafforzamento della Confindustria a scapito dei sindacati. A proposito di sindacalisti, negli stessi anni il capo della CGIL Luciano Lama se la passava persino peggio di Berlinguer.
L’aura leggendaria che aleggia sul «caro Enrico» è un altarino pluridecennale che riunisce assieme sinistra sociale e sinistra politica. Anche i più critici, in fondo, lo guardano con la paura di cadere nella hybris al cospetto di un uomo che comunque ha segnato un’epoca. E che, per noi odierni, sarebbe comunque un radicale; d’altronde, anche Moro sarebbe radicale per certuni.
Pretendi la piena ambizione!
A giudicare da tutte queste lenti, è inevitabile pensare che la «grande ambizione» di cui parlava Gramsci – e che aleggia romanticamente nelle sale cinematografiche che proiettano il volto di Elio Germano – non può essere trattata al singolare. Tante grandi ambizioni che non riescono a trovare quadra come non riuscivano allora, con l’aggravante che oggi il discorso sull’alternativa reale è molto scemato rispetto a mezzo secolo fa.
Discorso contrario si potrebbe fare con le «piccole ambizioni», che Gramsci mette al plurale. Sembra invece proprio che la piccola ambizione non sia così diversa da caso a caso: opportunismo, arrivismo, voglia quasi patologica di fare carriera al di là delle conseguenze del proprio percorso. Una costante facilmente rintracciabile, senza sconti, in tutte le forze sociali e politiche: la differenza la fa il grado di sviluppo degli anticorpi a questi fenomeni.
La grande ambizione ci lasci un monito: pretendere la piena ambizione. Le grandi ambizioni devono resistere, le piccole comunque esisteranno ma andranno rese inoffensive. Se vogliamo, possiamo metterla nei termini gramsciani: «È nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all’esercizio del potere statale. Un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco. […] La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt’altro: tutto sta nel vedere se l’«ambizioso» si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato [consapevolmente] dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione generale.»