“L’Occidente e la Nato non sono innocenti. Era necessario, dopo la caduta del Muro di Berlino, estendere la Nato lungo tutto il confine occidentale della Russia? Pensavate che non ci sarebbero state reazioni? Quando ci sono stati i missili a Cuba gli Stati uniti hanno fatto il blocco navale. Giustamente. Perché diceva, Kennedy, non puoi mettere i missili nucleari a 10 minuti da New York e da Washington…Le regole della legalità internazionale valgono per tutti, o no?”
Queste le parole del Presidente della Campania, Vincenzo De Luca, nell’ambito di un recente evento politico tenutosi a Treviso. Le coraggiose, ma veritiere, affermazioni del Governatore campano assumono ancora più peso considerata la posizione del suo partito sull’ultima risoluzione approvata nel Parlamento Ue. La stessa che, oltre al consueto impegno militare per Kiev, ha sancito la revoca delle restrizioni all’uso delle armi occidentali contro obiettivi sul territorio russo. Il Partito Democratico, con i suoi esponenti, si è espresso a favore (come quasi tutti gli altri partiti del “sistema democratico nazionale“, ad esclusione di Lega, M5S e AVS) con due sole eccezioni.
La questione occidentale
Appena qualche settimana prima, De Luca ricordava le numerose violazioni dei principi internazionali da parte della Nato rimaste impunite: da Belgrado (prima guerra di aggressione in Europa, nel 1999, dopo il II˚conflitto mondiale) alla seconda guerra in Iraq (2003-2011), l’occupazione dell’Afghanistan (2001-2021) e della Libia (2014-2020), fino alla complicità generale dei paesi della Nato con Israele che, dopo i fatti del 7 ottobre 2023, non bada alle vite dei civili palestinesi e si cimenta in attività non convenzionali in Stati come l’Iran e il Libano (dove avvengono i cosiddetti omicidi mirati, ultimamente anche facendo esplodere comuni dispositivi elettronici in possesso di malcapitati nemici).
La riflessione è importante perché rientra in un’epoca in cui la propaganda trasversale atlantica, più che in altri momenti, interpreta a proprio piacimento le leggi internazionali per continuare a legittimare unilateralmente un ordine mondiale che, di fatto, non esiste più. Ciò fa traballare le stesse basi legali di questo ‘sistema’ consolidatosi dopo la Guerra Fredda, in cui sempre più nazioni si rifiutano di applicare sanzioni non condivise o di avviare azioni repressive o giudiziarie contro presunti crimini e criminali che, dal loro punto di vista, non sono tali. Pensiamo per esempio al mancato arresto di Putin in Mongolia, richiesto dall’Aja.
Siamo oramai entrati in una fase multipolare in cui gli attori geopolitici rivendicano e ottengono spazi d’azione e margini di manovra più ampi, a discapito di precedenti equilibri ormai insostenibili nella realtà. Sono i rapporti di forza mondiali, irrimediabilmente mutati, che stanno togliendo al diritto internazionale quel velo di Maya a lungo coltivato.
Tuttavia, pur riconoscendo al politico dem lungimiranza e onestà intellettuale, non si può non rilevare un errore superficiale insito nella sua valutazione. Difatti, anche De Luca cade nella trappola della dicotomia aggressore (russo) e aggredito (ucraino), data per acclarata indipendentemente da considerazioni storiche che andrebbero meglio collocate nel tempo e nello spazio. Del resto, come sosteneva Hegel, ciò che è divenuto noto non è mai veramente conosciuto.
Gli americani, per rinforzare un giudizio che non si regge sulle effettive circostanze politiche e storiche, sono costretti ad aggiungere al termine “aggressione” la specificazione “non provocata“. Insomma, mettono le mani avanti perché è sempre più difficile convincere le nazioni slegate dal Washington consensus di ragioni che non includono preventivamente criteri logici solidi e condivisi. Tra questi, una serie di antefatti volutamente obliterati dalle narrazioni ufficiali: il colpo di Stato in Ucraina del 2014 che ha defenestrato l’ex presidente Yanukovic e lo stesso allargamento della Nato ricordato da De Luca, a partire dall’implosione dell’Urss, in spregio a patti assunti, seppur informalmente, da Bush senior.
La dicotomia
Proprio sul dualismo aggressore-aggredito, strateghi politici e giuristi del passato si sono arrovellati, scrivendo montagne di libri. Al contrario, ora i dubbi non sono quasi più ammessi, così come analisi approssimative vengono considerate forme di “tradimento della patria”. Si deve accettare pedissequamente l’unica versione ufficiale, pena essere tacciati di intesa col nemico.
En passant, ricordiamo che è ancora in corso una disputa serrata tra addetti ai lavori su chi abbia provocato la Prima Guerra Mondiale, mentre si pretende di aver già maturato ogni certezza su avvenimenti a noi fin troppo vicini. Sono state scritte centinaia di migliaia di pagine sulla Grande Guerra, eppure ancora non c’è concordanza tra gli storici. Noi, invece, a disputa in corso tra russi e ucraini, non abbiamo dubbi su chi abbia aggredito chi. Si tratta di quella bassissima propaganda denunciata da Lord Ponsonby nel suo testo Falsehood in war-time. “L’aggressore è sempre il nemico”: ecco qui riassunto uno dei principi centrali su cui, secondo Ponsonby, si fondano le menzogne di guerra.
Un’analisi politologica
A proposito di guerre e legalità internazionali, veniamo ora a un grande giurista e politologo di nome Carl Schmitt: seguendo l’ermeneutica giuridica di Schmitt, apprendiamo che, nel diritto internazionale, quando si fa appello a valori universalmente condivisi la menzogna è parimenti dietro l’angolo. Concetti come pacifismo e liberalismo, aggiunge Günter Maschke nel suo epilogo al saggio di Schmitt “Stato, grande spazio, nomos” pubblicato da Adelphi, “possono rivelarsi nient’altro che maschere retoriche di bellicismo, imperialismo, paninterventismo, valori tirannici”.
Per Schmitt, lo jus gentium occidentale è funzionale alla politica di potenza degli angloamericani, che detengono “il più fantastico dei monopoli, ovvero il monopolio della custodia della libertà di tutta la terra“. Da Carl Schmitt abbiamo altresì imparato che il nemico non va trattato come un mostro, essendo iustus hostis. Contro il nemico si combatte, ma si deve comunque trattare per ottenere quanto rivendicato; si tratta, anche e soprattutto, quando ci si spara addosso.
Il nemico è, innanzitutto, un concetto politico (il nemico pubblico, dice Schmitt), e allorché ci si scontra militarmente con questo, si continua la politica con altri mezzi, poiché il fine della contesa non è l’annientamento del nemico stesso, ma vincere la lotta – la sottomissione della controparte – per primeggiare e, non da ultimo, raggiungere gli obiettivi prefissi. É questo il cuore della politica: confliggere per predominare e per conquistare posizioni utili ai propri scopi e alla propria visione del mondo. Se altri si frappongono sul percorso con intendimenti contrastanti, bisogna batterli politicamente o, se necessario, con le armi. Invece, ridurre il nemico nell’alveo di categorie morali significa perdere il senso stesso della storia e della società. Malauguratamente, ciò assomiglia troppo a quello che avviene ai nostri giorni, in cui i “macellai” sono solo gli altri.
Per questo, quella sui poveri aggrediti e sui malvagi aggressori è una retorica valida per disorientare e condizionare le menti, per tenere in pugno l’opinione pubblica al di là di un’equa e più corretta distribuzione delle responsabilità. L’assoluta colpevolezza del nemico è, come scrive Ponsonby, come sempre, un mito di guerra: “il grande successo della propaganda, tuttavia, lascia l’impressione fissata a lungo negli animi di coloro che vogliono giustificare a sé stessi la loro azione a sostegno della guerra e di coloro che non si sono presi la briga di seguire le successive ritrattazioni e smentite. Inoltre, il mito può rimanere, per quanto possibile, nella mente del pubblico sotto forma di paura di ‘aggressioni non provocate’ e diventa la principale, e anzi l’unica, giustificazione per i preparativi di un’altra guerra”.
Arte politica
Un tempo i pensatori italiani sono stati maestri dell’arte politica, ma le loro lezioni sono oggi sempre più lontane e dimenticate. Da Botero a Machiavelli sappiamo che l’insistenza sulle categorie di aggressori e aggrediti, definite inappellabilmente, nasconde delle insidie e obnubila la sostanza dei problemi. Il tema non è solubile nemmeno ricorrendo a meri escamotage giuridici o a scorciatoie legali: dietro questi fattori opera, non vista ma avvertita, la potenza dei rapporti di forza.
Per Giovanni Botero, autore Della ragion di stato, è sempre meglio anticipare le mosse e trasformarsi da assaliti ad assalitori, se le circostanze lo consentono: “gli antichi non misero mai questo in dubbio: fu sempre opinione di tutti i gran capitani esser meglio l’assaltare che l’esser assaltato, perché l’assalto, che non è totalmente temerario, conturba e disordina il nemico, gli toglie parte delle entrate e de’ beni, si vale delle vettovaglie o lo sforza a corromperle di sua mano, tira a sé i malcontenti e mal soddisfatti del suo governo; se vince, guadagna assai; se perde, risica poco, massime se l’impresa si fa lungi da casa; finalmente i casi della guerra, che sono infiniti, favoriscono più presto l’assaltatore che l’assaltato”. Ugualmente per Machiavelli, autore de Il Principe: “si devono compiere precisamente quelle azioni, perché gli altri non ci prevengano”, quindi anche aggredire per non essere aggrediti diventa un ‘diritto’ al cospetto di provocazioni che possono essere foriere di conseguenze ben più ferali e fatali.
Certo, non è questa materia di diritto internazionale, quanto meno non direttamente. Sicuramente non lo è per organismi quasi mai imparziali che non provano nemmeno a misurare tutti i lati delle questioni nelle rispettive decisioni legali.