Con un’operazione lampo in queste ultime settimane, i jihadisti del gruppo Hayat Tahrir al Sham (Hts) hanno preso Damasco, spodestando così l’ormai ex presidente Assad.
I ribelli, dopo aver conquistato Aleppo, Hama e Homs, sono entrati nella capitale siriana, al culmine di un’offensiva che, nella pratica, non ha incontrato alcuna resistenza da parte dell’esercito regolare siriano. Come confermato in questi ultimi giorni, Assad aveva già abbandonato il paese per rifugiarsi in Russia, dove Vladimir Putin gli ha concesso asilo politico. Nonostante la caduta del regime di Assad, la Siria, ora più che mai, resta al centro di molteplici interessi e influenze geopolitiche, in particolar modo quelle della Turchia di Erdogan.
ERDOGAN IL GARANTE
Nei giorni scorsi, il Presidente turco ha affermato più volte che la Turchia sarà il garante principale della stabilità politica e territoriale della Siria, dichiarando che non permetterà a nessuno di creare una situazione come quella che quest’ultima ha subito in questi 14 anni.
Erdogan ha infatti denunciato l’“aggressione” da parte di Israele, riferendosi alle operazioni dello Stato ebraico sulle Alture del Golan: il presidente turco ha infatti evidenziato come tale atto non contribuisca in alcun modo alla stabilità in Siria, anzi la danneggia solamente.
Erdogan ha ribadito questo concetto soprattutto al Segretario generale della NATO, Mark Rutte, esaltando la posizione fondamentale della Turchia nel rovesciare il regime di Assad, affermando così il proprio potere all’ interno dello scacchiere geopolitico in Medio-Oriente.
I GRANDI SCONFITTI
La fulminea avanzata dei ribelli è stata sicuramente favorita dalla situazione attuale in cui si trovano quelli che sono stati i più grandi alleati di Assad: la Russia e l’Iran. Non si può non prendere in considerazione il peso che hanno le due guerre di questi due stati: quella della Russia in Ucraina e quella dell’Iran, per procura, con Hezbollah in Libano, contro Israele.
Per Mosca il crollo del regime di Damasco, proprio alleato storico in Medio Oriente è un danno rilevante: la decisione di non intervenire in maniera decisa è stata chiaro sintomo dell’elevato impegno militare russo in Ucraina, in un momento molto delicato, anche in vista della presidenza Trump.
Come la Russia, così anche l’Iran ha scelto di non intervenire, nonostante le continue promesse di sostegno susseguitesi in questi anni: anche qui la motivazione è sicuramente legata alle continue sanzioni che subisce da anni e dalla conflittualità diretta ed indiretta con Israele. Con la perdita della Siria e l’indebolimento di Hezbollah in Libano, Khamenei perde l’accesso al Mediterraneo nonché una base per esercitare pressione su Israele. Le stesse potenze che salvarono il regime di Bashar al Assad nel 2015 grazie al loro intervento sono state le stesse che in maniera involontaria hanno portato all’avanzata fulminea di ribelli.
IL LEGAME TRA I ERDOGAN E GLI JIHADISTI
Il leader dell’Hts, Al-Jolani, dopo la vittoria, si è impegnato a rilanciare il proprio gruppo come forza politica di stampo nazionalista, adottando però anche un atteggiamento di conciliazione nei confronti delle minoranze religiose della Siria, come i cristiani e i drusi, promettendo loro garanzie e sicurezza in questa nuova era. Nonostante l’impegno di Al-Jolani, le radici estremiste dell’Hts restano comunque un grande punto interrogativo, visto che al suo interno vi sono circa 30 mila miliziani pronti a combattere in nome di Allah.
Sin dall’inizio del conflitto, ovvero nel 2011, l’appoggio di Erdogan nei confronti dei ribelli non è mai mancato: scelta dettata dal voler contrastare il rivale iraniano, che aveva invece deciso di sostenere Assad. Ankara, per più di un decennio, ha continuato a foraggiare i gruppi armati islamisti di opposizione, diventati così dominanti rispetto alle fazioni moderate e pro-laiche che pure si erano ribellate al regime.
Grazie alla vittoria di al-Jolani e alla caduta di Assad, Erdogan segna un altro punto tra i propri obiettivi strategici. La vittoria dei jihadisti potrebbe infatti assicurare un arretramento importante dei separatisti curdi nella Siria nord-orientale, i quali ovviamente sono connessi con i separatisti curdi della Turchia. Inoltre, non è da sottovalutare che la necessaria ricostruzione del Paese porterà sicuramente a un grande vantaggio economico per la Turchia, in quanto le aziende turche potrebbero rivelarsi indispensabili per rimettere in sesto una Siria distrutta da questi 14 anni di guerra.
ENNESIMO SUCCESSO DI ERDOGAN, AI DANNI DI PUTIN
Il peso politico di Erdogan si è fatto sentire. In questi ultimi giorni il presidente turco ha avuto dei colloqui con Mark Rutte, Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen, mentre Mosca ha affermato che, in relazione alle basi sul Mediterraneo, dialogherà spòamente con chi governerà la Siria.
La guerra in questo paese, dopo la guerra nel Nagorno-Karabakh, rappresenta il secondo successo di Erdogan ai danni di Putin, nonostante questo Erdogan ha ribadito recentemente che gli unici due veri leader politici al mondo sarebbero proprio lui e Vladimir Putin. Non bisogna però dimenticare che l’intervento russo in Siria fu anche dettato da un progetto fortemente voluto da Erdogan, legato alla possibilità che gas naturale proveniente dal Qatar, o petrolio e gas degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, potesse raggiungere l’Europa attraverso un gasdotto che passasse per la Siria. La rotta sarebbe stata economicamente più vantaggiosa, inoltre avrebbe offerto all’Europa un’alternativa concreta alla dipendenza dal gas russo fornito attraverso Gazprom e i gasdotti Nord Stream.
Per Putin, garantire la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia è stato per anni il punto principale della sua politica estera nel Vecchio Continente. La Siria di Assad, in questo contesto, rappresentava una barriera fondamentale contro la costruzione del gasdotto. Non a caso, il regime di Damasco ha rifiutato nel 2009 il progetto legato al gasdotto, che avrebbe attraversato la Siria per connettersi alla rete turca, e da lì all’Europa. La fine della guerra in Siria vede dunque un unico vero vincitore: Recep Tayyip Erdogan, anche se non sappiamo esattamente quanta influenza ha il presidente turco nei confronti dei ribelli, ma di certo, la vittoria di quest’ultimi, lo ha sicuramente posto in una posizione di forza in Medio Oriente, che potrebbe essere utilizzata per allargare la propria presenza militare anche oltre le zone già controllate, per lo più vicino al confine, e un ritiro delle forze curde siriane legate al Pkk.