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    Liberi di vivere un’altra vita

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    Il noto caso di un paziente delle Marche, Fabiano Antoniani, che, a seguito della sentenza della Consulta sul caso Cappato, ha chiesto alla propria ASL di appartenenza di poter accedere alla morte assistita in Italia. Soggetto che, a seguito di un grave incidente stradale, è finito in condizioni drammatiche. Conservando intatte le facoltà intellettive, dunque consapevole dell’irreversibilità delle sue condizioni, esprime la volontà di porre fine alla propria esistenza.

    Tale accaduto ha contribuito ad aprire la strada verso un processo volto al riconoscimento dei diritti fondamentali dell’individuo.

    Le origini dell’intervento della Corte Costituzionale

    La sentenza in esame è quella della Corte Costituzionale n. 242/2019 riguardante l’incidente di costituzionalità – sollevato sull’art. 580 c.p. per violazione degli art. 2, 13 e 32, secondo comma Costituzione – dove fu dichiarata illegittimità costituzionale per la parte relativa all’aiuto al suicidio. Nella parte in cui non esclude la punibilità di chi: agevola l’esecuzione del proposito di suicidio laddove tale aiuto sia fornito ad una persona affetta da patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, ma pienamente capace di prendere decisioni consapevoli. Sempre che tali condizioni siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. L’odierna pronuncia dà attuazione alla decisione di liceizzare la condotta di agevolazione al suicidio in presenza di determinate circostanze.

    Viaggio nelle problematiche relative alla legalizzazione dell’eutanasia oggi

    In questi ultimi anni il dibattito sulle questioni etiche e giuridiche relative al fine vita ha occupato uno spazio sempre più rilevante della scena politica e non. L’interesse che ha dato luogo a questa ricerca è nato proprio dalla necessità di riflettere sull’opportunità di rendere la morte un processo meno doloroso, sottraendolo al dominio della legge e della classe medica. Ci si chiede fino a che punto sia possibile per uno Stato laico obbligare i propri cittadini a vivere una situazione di perenne dolore non più ritenuta tollerabile.

    Il famoso teologo Hans Kung intervenne sul tema fortemente discusso della decisione sul fine vita. La sua analisi lo ha portato lucidamente a sostenere che è diritto inalienabile di ognuno decidere di porre dignitosamente fine alle proprie sofferenze. Negli ultimi anni il dibattito è emerso con prepotenza mettendo in risalto quelli che sono problemi e limiti della nostra società. Nell’ambito del fine vita sono, altresì, coinvolte scelte giuridiche – compiute dalle politiche pubbliche – al cui interno si mescolano interessi contrapposti, guidati da orientamenti di matrice etica e politica, che concepiscono in maniera differente il valore della vita. Nell’area di questa tematica si collocano due posizioni contrapposte: la prima, definita pro choice, sostiene che la vita sia un bene indisponibile che può essere gestito dal suo possessore; la seconda invece, pro life, ritiene contrariamente che la vita – avendo un valore intrinseco ed universale – sia qualcosa di inviolabile e sacro.

    Il termine eutanasia deriva dal greco ed equivale a “buona morte”. Viene comunemente definita dal Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) come la somministrazione di farmaci con lo scopo di provocare, con il consenso del paziente, morte immediata. Ve ne sono due tipologie: attiva, realizzata somministrando un composto che porta direttamente al decesso, e passiva, eseguita decidendo di interrompere tutte le terapie in corso con l’obiettivo di accelerare il decesso del soggetto. Nel primo caso la scelta avviene consapevolmente ad opera dell’individuo; nel secondo invece per opera di terzi (familiari o medici).  

    In Italia tale pratica è condannata in modo categorico. Nell’art. 17 del (CDM) codice deontologico medico si stabilisce che: il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. Doveroso è il richiamo al nostro Codice penale: art. 575 omicidio volontario, 579 omicidio del consenziente, 580 istigazione o aiuto al suicidio. Tutti quei casi in cui si agisce con la finalità di causare la morte del soggetto; in modo particolare una menzione va fatta al 579 c.p. nel caso in cui, anche se presente il consenso di colui che desidera porre fine alla sua esistenza, la persona che provoca il decesso subentra al soggetto in questione. Il soggetto difatti agisce “assumendone l’iniziativa, oltre che sul piano della causalità materiale, anche su quello della determinazione volitiva”.

    Ulteriore analisi va fatta a proposito del suicidio assistito, conosciuto quale atto di porre fine alla propria esistenza in modo consapevole mediante l’auto somministrazione di farmaci da parte di un soggetto, che viene appunto “assistito” da un medico. In entrambi i casi tali richieste vengono sottoposte alla valutazione di commissioni di esperti e al parere di più medici. Solo dopo un’accurata analisi delle condizioni cliniche del soggetto viene concessa – o meno – la possibilità di accedere agli interventi (nei Paesi consentiti).

    Profili normativi

    In Italia non è possibile effettuare né eutanasia né suicidio assistito, nel resto del mondo invece la diffusione di queste pratiche è varia. In Olanda l’eutanasia è legale dal 2002, mentre il suicidio assistito dal 2004, anche per minori di età purché con il consenso dei genitori. Nei Paesi Bassi devono sussistere una serie di condizioni tra cui l’assenza di una alternativa ragionevole. Anche negli USA l’aiuto al suicidio è consentito, ma solo in alcuni Stati. In Svizzera, Paese in cui le richieste di accesso alla pratica negli ultimi anni si sono duplicate, è consentito solo l’aiuto a morire. In Italia praticare l’eutanasia costituisce reato punibile ai sensi del 579 c.p. e del 580. Al contrario, il suicidio assistito, inteso come assistenza di terzi nel porre fine alla vita di un malato, è legittimato ma non praticato.

    La sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale ha individuato quattro requisiti che possano giustificare un aiuto al suicidio: la presenza di una patologia irreversibile, una grave sofferenza fisica o psichica, la piena capacità di prendere decisioni consapevoli e la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Infine, la sospensione delle cure è un diritto sancito dall’art. 1 della legge 219/2017 che stabilisce che “nessun trattamento può essere iniziato se privo del consenso libero e informato della persona interessata”.

    L’attuale quadro giuridico in Italia

    In Italia lo sviluppo del fine vita ha portato al raggiungimento di traguardi e cambiamenti. Questo grazie all’impegno di coloro che si sono battuti per vedersi riconoscere un diritto purtroppo non ancora pieno. Oggi è sempre più forte la necessità di una legge specifica che assicuri a ciascuno la possibilità di porre fine alle proprie sofferenze. Varie associazioni si battono per ottenere una legge sulla legalizzazione dell’eutanasia al fine di riconoscere la piena libertà di autodeterminazione del singolo.

    Il 10 marzo 2021, dopo aver ricevuto il via libera della Camera con 253 voti favorevoli, è stata presentata una proposta di legge sul fine vita. Ad oggi essa è ancora ferma al Senato, dove il testo dovrà essere calendarizzato per il passaggio successivo. Il tema del fine vita appare, dunque, ancora un tortuoso percorso ad ostacoli difficili da aggirare, con pochissimi casi arrivati in fondo.

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