Nell’instabile contesto geopolitico odierno, tra formazioni di nuovi blocchi, crisi e discorsi sul riarmo, in Gran Bretagna si torna a parlare di un argomento spinoso, la Brexit, il cui spettro non ha mai realmente abbandonato l’opinione pubblica nazionale.
La petizione. Come funziona in Gran Bretagna?
“Credo che tornare nell’Unione Europea darebbe una spinta all’economia, aumenterebbe l’influenza globale, migliorerebbe la collaborazione e donerebbe stabilità e libertà. Credo che la Brexit non abbia portato a nessun tipo di benessere tangibile e che non ce ne sia speranza in futuro, (credo) che la Gran Bretagna abbia cambiato idea e che ciò vada riconosciuto”. Queste le parole della petizione presentata a novembre prima al Governo e poi al Parlamento britannico da parte di circa 135 mila persone.
In Gran Bretagna, i cittadini non possono presentare petizioni al Parlamento per chiedere provvedimenti legislativi, cosa che invece accade in Italia, ai sensi dell’articolo 50 della Costituzione. Quello che possono fare è cercare di generare dibattiti generali in aula, con cui permettere ai deputati di tutti i partiti di discutere di argomenti rilevanti per la cittadinanza e sollevare problematiche ai ministri.
I dibattiti che scaturiscono dalle petizioni non generano voti in aula per approvare o meno la petizione; il reale scopo è ottenere una risposta da parte del Governo, come è successo in questo caso.
La risposta del Governo
Già a metà novembre, conseguentemente alla nascita della petizione, il Governo britannico aveva dichiarato che non ci sarà un ritorno del Paese all’interno della comunità europea, in linea con quanto promesso da Keir Starmer nel Manifesto elettorale del Partito Laburista, prima delle elezioni di luglio. Malgrado ciò, Starmer sta comunque lavorando assiduamente per il miglioramento e il rafforzamento del rapporto con “gli amici europei”; a titolo esemplificativo, basti pensare al recente accordo sulla pesca in acque britanniche e alla proposta per la mobilità giovanile.
Il rapporto con l’Unione europea
Mentre quest’ultimo punto rientrava già tra gli obiettivi del premier a inizio legislatura, gli ultimi mesi hanno decisamente velocizzato il processo di riavvicinamento all’Unione Europea da parte del Governo laburista. Si tratta di un passaggio tutt’altro che casuale, dal momento che Starmer è un convinto europeista, tant’è vero che aveva fatto parte della fazione del “Remain” nel 2016.
Trovandosi in una posizione delicata sul piano politico sia interno che estero, la scelta di astenersi da un ritorno a gamba tesa, creando comunque un rapporto più intenso con l’Europa, appare sensata.
Il quadro politico interno ed estero
Internamente, Starmer si trova ad affrontare la continua pressione sovranista esercitata dal partito populista Reform UK, che sta addirittura portando a un cambiamento del sistema politico e partitico bipolare del Paese. Sul piano internazionale, c’è invece il problema di trovarsi forzatamente a metà tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, Paese con cui è in vigore una “Special Relationship”, definita tale da Winston Churchill nel 1946.
L’obiettivo apparente del Regno Unito sembra quindi quello di porsi come ponte neutro tra i due poli. A Starmer serve una relazione stabile con l’Unione europea per difendersi dall’incertezza americana, da cui è stato già colpito, complice l’applicazione dei dazi statunitensi anche alla Gran Bretagna.
Nella risposta alla petizione, il Governo si dice già al lavoro con l’Unione europea per identificare aree ove sussista la necessità di rinsaldare la cooperazione e ottenere così benefici reciproci in settori quali l’economia, l’energia e la sicurezza. Inoltre, si dichiara esplicitamente l’impegno a lavorare sul settore dell’istruzione superiore, al fine di permettere alle università di maggior prestigio a livello globale di continuare ad attrarre gli studenti più brillanti, sostenendo così l’economia del Paese.
Un rientro impossibile?
Le difficoltà che subentrerebbero qualora la Gran Bretagna volesse tornare a far parte dell’Unione europea non sono poche. Tra i punti più dibattuti, c’è lo stesso processo di ammissione: con il passare del tempo la Gran Bretagna, nonostante la rinnovata amicizia con Bruxelles, sta divergendo sempre più da alcuni standard di base europei. In qualità di richiedente, il Paese si troverebbe con le spalle al muro, obbligato ad aderire ad aspetti dell’Unione da cui precedentemente aveva potuto dissociarsi, come l’appartenenza all’Eurozona o all’area Schengen.
In aggiunta, non è scontato che gli stessi Stati europei vogliano realmente un ritorno del Regno Unito tra gli ormai 27 Paesi comunitari. Un’adesione britannica potrebbe ostacolare progetti come il NextGenerationEU, senza poi contare il rischio che – una volta integrato nuovamente – il Paese torni sui suoi passi, rendendo l’appartenenza alla comunità europea un’opera instabile.
L’opinione pubblica
C’è poi l’opinione pubblica britannica. Oltre al già citato problema sovranista, comunque non irrilevante anche a causa dell’ampio sostegno popolare, esiste anche una questione strettamente numerica. Solo il 55% dei britannici, ad oggi, tornerebbe in Europa, una percentuale speculare ma opposta a quella registrata alle elezioni del 2016. Politicamente, dunque, i sondaggi non sono poi così scioccanti da giustificare un clamoroso comeback europeo.
La crisi economica post-Brexit
Malgrado i deterrenti che scoraggiano la scelta europeista, la fine della Brexit porterebbe a enormi miglioramenti dell’economia britannica, attualmente dilaniata e a picco. Uno studio dell’Office for Budget Responsibility, usato per sottolineare la tragica situazione nazionale nel dibattito di questa settimana sulla petizione, ha dichiarato che l’economia britannica si è ridotta complessivamente del 4% dopo la Brexit, e non è nemmeno migliorata a seguito di patti economici come quello siglato con l’Australia.
L’Economic Cost of Brexit Project ha inoltre calcolato che il cittadino britannico medio ha perso circa duemila sterline a causa dell’uscita dall’Unione; quest’ultima cifra va sommata alla già precaria situazione economica causata dall’aumento del costo della vita.
Inoltre, il Paese non ha mai realmente sopperito alla mancata creazione di quasi due milioni di posti di lavoro generatasi a causa della Brexit, nonché alla chiusura delle 16 mila piccole aziende su tutto il territorio nazionale.
I molti problemi da affrontare
Risicato il margine di intervento anche per il turismo e il settore educativo, fino a poco tempo fa pilastri dell’economia nazionale, godendo dei benefici della libertà di movimento all’interno dell’Unione. Infine, varie sono le manchevolezze del Regno Unito rispetto alle discussioni europee, prima tra tutte quella sul piano per la difesa comune, a cui secondo molti il Paese potrebbe collaborare come protagonista. Volendo poi proseguire, l’elenco dei problemi da affrontare non finirebbe più.
Una speranza condivisa
C’è comunque una speranza comune tra chi ancora crede in un secondo matrimonio euro-britannico. La petizione di cui stiamo trattando non è la prima presentata: già nel 2019 tantissime persone avevano firmato per abolire l’articolo 50 del TUE e tornare a far parte dell’Unione europea. L’istanza aveva ricevuto circa 5 milioni di firme, arrivando ad essere la petizione più sostenuta nella storia britannica, battendo la Chartists’ Petition del 1848.
20250118

