O l’Europa cambia, o rischia la morte. Questo è il pensiero espresso da Mario Draghi nel suo Rapporto sul Futuro della Competitività dell’Europa presentato alla Presidente della Commissione, Ursula Von Der Leyen. Ci va giù pesante Draghi, affermando che “per la prima volta dalla Guerra Fredda l’Ue deve veramente temere per la propria sopravvivenza” e che “la necessità di una risposta unificata non è mai stata così impellente”.
L’Europa ha smesso di innovare sé stessa
Quali sono i problemi evidenziati dal rapporto? In estrema sintesi: l’Europa ha smesso di crescere rispetto a Stati Uniti e Cina, e rischia di rimanere indietro su un grande numero di settori strategici, perdendo competitività. Già a febbraio e ad aprile, Draghi aveva invocato un cambiamento radicale: l’Unione Europea ha smesso di perseguire l’obiettivo dell’integrazione fra i paesi membri. L’attuazione delle istanze riformatrici manca da ben 17 anni, ovvero da quel Trattato di Lisbona del 2007 che si caratterizza come punto d’arrivo del processo d’integrazione iniziato con l’Atto Unico del 1980. Il Trattato di Maastricht aveva sancito l’unione economica e monetaria, oltre che i tre pilastri dell’Ue, ma fu con i Trattati di Amsterdam e Nizza, successivi all’allargamento a 15 membri, che i processi decisionali furono semplificati sostituendo in molti settori il principio dell’unanimità con la maggioranza qualificata. Tuttavia questo non è mai successo nel Consiglio dell’Unione Europea, organo composto dai rappresentanti degli Stati Membri che prende decisioni fondamentali per il futuro dell’Unione. Gli eventi che hanno definito lo scenario globale dai primi anni 2000 ad oggi non sono stati forieri di una riforma che andasse a ricalibrare i pesi all’interno dell’UE. A partire dall’abolizione di quel voto all’unanimità che tanto sta facendo penare la Commissione nel braccio di ferro con l’Ungheria di Viktor Orban, passando per il completamento dell’integrazione dei mercati finanziari.
Il Rapporto Draghi
Quali sono le proposte contenute nel rapporto redatto da Mario Draghi? Innanzitutto, il piano d’investimenti più ambizioso della storia dell’UE: 800 miliardi all’anno per ridare slancio all’economia europea e tentare il recupero sulle iperpotenze cinese e americana. Più del doppio del Piano Marshall, lo European Recovery Program lanciato dagli USA al termine della Seconda Guerra Mondiale. Infinitamente di più del Recovery Fund (concretizzato in Italia tramite il PNRR), misura una tantum di 750 miliardi (la proposta di Draghi è di 800 miliardi all’anno per un numero di anni non precisato).
Considerando la difficoltà europea sul piano dei costi dell’energia, la proposta è quella di concordare acquisti comuni di risorse e semplificare la burocrazia per la costruzione di nuovi impianti per la produzione energetica non derivante dai combustibili fossili. Altro settore in cui è necessario investire secondo il rapporto è quello della difesa, tramite il coordinamento degli investimenti tra Paesi e la creazione di un vero e proprio “Mercato Unico della Difesa”. Non dimentichiamo che il settore della difesa non è esclusivamente formato dalla produzione di armamenti – necessari comunque a garantire la sicurezza dei confini europei, in uno scenario di crisi globale come quello odierno – ma anche di veicoli, infrastrutture, oltre che all’enorme quota di ricerca e sviluppo che ha sempre portato al progresso tecnologico. Esempio lampante è quello di internet, tecnologia apparsa prima in ambito militare e poi estesa all’uso civile, ma si potrebbe andare avanti con una lista ben più lunga. Altro settore fondamentale è quello dell’innovazione tecnologica, in cui giocano un fattore chiave le componenti (batterie, chip, ecc.) per cui sono fondamentali le ormai famose terre rare che ne garantiscono la produzione. La Cina è il primo fornitore mondiale di questi materiali e ridurre la nostra dipendenza dal Dragone, in questo o altri ambiti di approvvigionamento, ci consentirebbe di recuperare terreno sulla competitività. Nonostante ciò, l’Europa rimane indietro su intelligenza artificiale e digitalizzazione, che può contribuire a migliori servizi pubblici, a rafforzare l’autonomia strategica del continente, a migliorare sanità e istruzione, e possibilmente anche ad accelerare la transizione ambientale.
Le reazioni dall’estero
La ricetta di Draghi prevede quindi investimenti pubblici sostenuti dalla creazione di nuovo debito comune e completamento del libero mercato interno. Le reazioni alla proposta sono state tiepide e persino stizzite. Il ministro delle Finanze tedesco, il liberale Christian Lindner, ha spiegato di trovarsi in disaccordo con il lavoro di Draghi, e che “più debito pubblico costa interessi, ma non crea necessariamente più crescita”. Era quasi ovvio che i Paesi “frugali” avrebbero contestato questa linea di investimenti pubblici, nonostante Mario Draghi sia spesso annoverato come un neoliberale, termine tanto vago quanto circospetto per la sua connotazione dispregiativa. La base teorica dell’affermazione di Lindner è insindacabile, ma è la contingenza storica a sconfessare questa posizione oltranzista.
L’Europa al bivio
«Mai in passato la dimensione dei singoli paesi è apparsa così piccola e inadeguata rispetto alla scala delle sfide che hanno davanti», afferma Draghi, ed è proprio la situazione attuale a far nascere in noi il dubbio: è davvero l’Europa delle piccole patrie, capaci di badare solo ai propri interessi, quella che desideriamo? Il senso di responsabilità dovrebbe far comprendere anche ai più duri e puri falchi dell’austerità che non esiste alternativa per colmare un divario ormai abissale, e che se l’Europa vuole davvero tornare ad essere un attore geopolitico dominante e non dipendente, è necessario agire con soluzioni drastiche. Emerge chiaramente il senso di urgenza che accompagna il rapporto: pur trattandosi di investimenti a lungo termine, essi sono da approvare nel più breve tempo possibile, se ancora si ritiene una priorità garantire ai cittadini europei il benessere di cui hanno goduto finora. «Siamo arrivati a quel punto in cui, se non facciamo nulla, dovremo rischiare di compromettere il nostro stato sociale, il nostro ambiente o la nostra libertà», ha affermato l’ex presidente della Bce. L’Europa è ancora una volta davanti a un bivio: alimentare i processi di integrazione mettendo mano ai funzionamenti alla base dell’Unione, o lasciare tutto così com’è. In attesa di una lenta agonia che porterà il continente a un declino sempre più inesorabile.