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    Occupazione di Gaza: tra dubbi interni e condanne internazionali

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    Mentre l’uccisione dei sei giornalisti palestinesi tiene ancora banco, tra chi li ritiene coraggiosi testimoni e chi li bolla come pericolosi terroristi, a Gaza la situazione peggiora ogni giorno di più. Le vittime hanno superato le 61.000, e sono ormai consistenti le morti a causa di denutrizione.

    Quasi l’80% del territorio della Striscia è attualmente sotto controllo militare israeliano. Tutto il mondo attende di conoscere le prossime mosse del governo di Benjamin Netanyahu, che ha approvato l’8 agosto un piano di occupazione ancora più intensa che sta destando grande preoccupazione. 

    L’approvazione del piano da parte dell’IDF

    Nonostante il premier israeliano avesse dichiarato prima della riunione di gabinetto di avere intenzione di occupare l’intera striscia, il piano approvato dal governo prevede per il momento l’occupazione della sola Gaza City, nel nord della Striscia, che ospita al momento circa 750.000 palestinesi in condizioni umanitarie sempre più precarie.

    La dichiarazione rilasciata dall’ufficio del premier elenca inoltre i cinque principi che, da mesi, il governo israeliano pone come condizioni per la fine della guerra: disarmo di Hamas; restituzione di tutti gli ostaggi, vivi o morti che siano; smilitarizzazione della Striscia di Gaza; controllo militare israeliano sulla Striscia; creazione di un’amministrazione a Gaza che non derivi né da Hamas né dall’ANP (Autorità Nazionale Palestinese). Per quest’ultimo punto sembra che già circoli un nome, l’imprenditore Samir Hulileh, su cui Israele e Stati Uniti punterebbero per costituire l’amministrazione civile stessa. 

    Non è ancora chiaro come saranno erogati alla popolazione gli aiuti umanitari che l’IDF – Israeli Defence Force – ha promesso, vista la scarsa efficacia di quelli erogati negli ultimi mesi attraverso la Gaza Humanitarian Foundation. Nel frattempo, l’esercito israeliano ha approvato il piano di occupazione di Gaza City

    Il futuro dei palestinesi

    Netanyahu ha per la prima volta dichiarato in un’intervista che i palestinesi residenti nelle zone oggetto del piano di occupazione non avranno nessuna limitazione per quanto riguarda la migrazione: “Perché Gaza deve essere un luogo chiuso? In tutte le altre zone di guerra – in Siria milioni sono andati via durante la guerra civile, in Ucraina milioni sono andati via, in Afghanistan milioni sono andati via. All’improvviso stanno decidendo che qui a Gaza i civili dovrebbero essere imprigionati. Diamo loro l’opportunità di andare via. Innanzitutto, dalle zone di combattimento. E anche di andare via dalla striscia se vogliono”. Alla domanda sulla destinazione, risponde: “Hai bisogno dei paesi che ricevono. […] C’è dialogo e questo è importante […] La cosa più naturale per tutti quelli che dicono di essere preoccupati per i palestinesi e di volerli aiutare sarebbe aprire le loro porte. Perché vieni a pregare noi? Apri le tue porte! Permetteremo loro di andare fuori, come gli è permesso in ogni altro teatro”. Malgrado su questo non vi siano ancora informazioni ufficiali, sembra che ci siano stati contatti tra i governi di Israele e del Sud Sudan per la deportazione di massa dei palestinesi. 

    L’ipotesi del Sud Sudan

    Già a marzo erano circolate voci simili in seguito all’annuncio del piano del presidente Donald Trump relativo alla trasformazione di Gaza in una riviera, ma sembra che adesso l’ipotesi sia presa in più seria considerazione. Si tratterebbe dell’ennesima violazione del diritto internazionale, come denuncia il relatore Onu per il diritto all’alloggio Balakrishnan Rajagopal.

    Proteste internazionali 

    La comunità internazionale, ad eccezione degli Stati Uniti, si orienta verso una critica sempre più serrata verso le azioni del governo e dell’esercito israeliano. Al momento, le azioni intraprese dai governi europei e oceanici comprendono la disponibilità a riconoscere lo stato di Palestina all’Assemblea Generale ONU di Settembre: dopo la dichiarazione del presidente francese Emmanuel Macron del 25 luglio, nel giro di poche settimane anche i capi di governo di Germania, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda hanno dichiarato la stessa intenzione, seppure con dei distinguo. 

    Il cancelliere tedesco Friedrich Merz aveva iniziato negli scorsi mesi a criticare Israele soprattutto per il blocco all’ingresso del cibo nella Striscia, e tre giorni fa ha anche deciso per un parziale blocco delle esportazioni di armi verso Israele, immediatamente criticato da Netanyahu, che ha paragonato l’offensiva contro Hamas alla guerra contro la Germania nazista. 

    Subito dopo, due giorni fa, Macron ha definito il piano israeliano di occupazioneun disastro senza precedenti”, proponendo l’intervento dell’ONU per garantire una transizione pacifica nella regione. Subito dopo l’annuncio del piano, il 10 agosto si è
    tenuta una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza ONU, convocato da Francia, Regno Unito, Slovenia, Danimarca e Grecia, che ha riaffermato la contrarietà e la preoccupazione della comunità internazionale per il piano israeliano.

    Le posizioni in Italia

    In Italia particolare scalpore ha suscitato la dichiarazione del ministro alla difesa Guido Crosetto, che in un’intervista alla Stampa ha detto che si è di fronte “alla pura negazione del diritto e dei valori fondanti della nostra civiltà […] oltre alla condanna bisogna ora trovare il modo per obbligare Netanyahu a ragionare”. La dichiarazione è stata accolta con freddezza dalle opposizioni, che hanno sottolineato soprattutto il ritardo del governo a prendere questa posizione e il rischio che dalle parole non si passi ai fatti

    Il Ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani appare tra i 24 firmatari della dichiarazione siglata il 21 Luglio con “un messaggio semplice ed urgente: la guerra a Gaza deve finire ora”, che ritiene inaccettabili cambiamenti demografici e territoriali, nonché la deportazioni di massa. 

    L’Italia è per ora l’unico grande Stato a non optare per il riconoscimento della Palestina, passaggio che – in questo momento, secondo la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni – sarebbe controproducente per via dell’assenza fattuale dello Stato. Il nostro Paese sta inoltre mantenendo un forte impegno umanitario nella distribuzione di cibo a Gaza. All’interno della maggioranza di governo, il vicepremier e Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini rimane il più convinto sostenitore delle politiche di Netanyahu. 

    Proteste interne

    Se il piano del governo israeliano incontra opposizioni all’estero, anche a Tel Aviv il progetto sembra non andare bene a nessuno. Nell’arco di pochi giorni, in sequenza, diverse sono state le voci che si sono fatte sentire contro il piano, con motivazioni a dir poco variegate

    Subito dopo l’annuncio di Netanyahu era stato il Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Eyal Zamir, a criticare il piano: innanzitutto per il pericolo che causerebbe agli ostaggi ancora a Gaza, ma soprattutto per l’enorme peso logistico richiesto all’esercito, che dovrebbe richiamare in servizio almeno 400.000 persone per controllare la Striscia.

    Questo porterebbe Netanyahu a dover prendere una posizione sulla questione dell’esenzione dal servizio militare concessa per motivi di studio teologico agli ebrei ultraortodossi, comunità che attualmente rappresenta circa il 14% della popolazione israeliana

    Una sentenza della Corte costituzionale israeliana del giugno 2024 aveva dichiarato decaduta l’esenzione e Zamir si era detto favorevole, ma i partiti di estrema destra che sostengono il governo, rappresentati dai ministri alle Finanze e alla sicurezza nazionale Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, hanno minacciato di far cadere l’esecutivo se Netanyahu applicherà la sentenza.

    Nel frattempo, l’ex direttore dello Shin Bet, il servizio segreto di sicurezza interna israeliano, Yoram Cohen ha dichiarato chese qualcuno immagina che possiamo raggiungere ogni terrorista e ogni buca e ogni arma e in parallelo portare a casa i nostri ostaggi – io credo sia impossibile”.

    Le spaccature nel governo

    Dall’interno del governo è arrivata la critica proprio di Smotrich, che ha dichiarato di ritenere il piano troppo poco incisivo e di aver perso la fiducia nella capacità di Netanyahu di vincere la guerra: il ministro ha chiesto di riconvocare il governo per rendere chiaro “che questa volta puntiamo a una vittoria che porterà alla resa completa di Hamas e il ritorno di tutti gli ostaggi in un colpo solo, oppure alla sua distruzione e all’annessione di ampie zone della Striscia di Gaza.”. 

    Diverso sembra il tono del liberale leader dell’opposizione Yair Lapid, che il 6 agosto ha chiesto a Netanyahu di non avviare il piano per il “prezzo troppo alto” che Israele pagherebbe, dato che la maggioranza della popolazione, sostiene, non sarebbe interessata a questa guerra.

    Pochi giorni prima, il 4 agosto, è salito alla ribalta l’ex primo ministro Ehud Barak, laburista e ora indipendente, che ha firmato insieme ad altri 600 ex ufficiali e politici israeliani, tra cui Cohen, una lettera che chiede di interrompere la guerra, sostenendo che sia ormai portata avanti solo per tenere in piedi la coalizione che sostiene Netanyahu ed evitargli i processi che lo attendono da diversi anni. 

    Infine, un tono decisamente diverso traspira dalle recenti dichiarazioni di Avraham Burgh, laburista e presidente della Knesset – il parlamento israeliano – dal 1999 al 2003, autore del manifesto “Ebrei ribellatevi”, pubblicato il 9 luglio. In un’intervista al Manifesto del 12 luglio, ha rivolto un invito direttamente agli ebrei a portare lo stato di Israele davanti al tribunale dell’Aia, segnalando anche la contraddittorietà dell’opposizione al piano da parte dell’IDF, “che da due anni uccide innocenti”. Burgh ha definito ingiustificabile la violenza da entrambe le parti, e “un tradimento dei valori ebraici” le azioni del governo, guidato dal “bugiardo” Netanyahu che tenta di “completare la Nakba” (l’esodo dei palestinesi dai territori loro assegnati, seguito tragico della guerra del 1948). 

    Domande aperte

    Come procederà il piano di occupazione totale della Striscia di Gaza, che ne sarà dei quasi due milioni di palestinesi che ancora ci vivono, cosa faranno gli ancora alleati di Israele, quale sarà il futuro della politica interna israeliana e dell’autorappresentazione del piccolo stato? Sono tutte domande aperte, a cui è difficile dare una risposta finché non tacciono i missili. Al momento sembra che non ci saranno modifiche nell’operato di Israele finché gli Stati Uniti, guidati da Trump, non cambieranno la propria linea, finora improntata al pieno supporto a Tel Aviv.

    In definitiva, ad essere trasfigurati saranno i rapporti tra Israele e il resto del mondo cosiddetto occidentale. Le crescenti critiche alle politiche israeliane stanno modificando radicalmente gli allineamenti sulla questione mediorientale come forse mai nella storia. C’è chi però sostiene che sia troppo tardi, almeno per l’Europa. 

    20250303

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