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    Patto per Napoli: Risanamento o Privatizzazione del Patrimonio Pubblico?

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    Il 29 marzo 2022, presso la storica sede del Consiglio Comunale di Napoli, il Sindaco Gaetano Manfredi e l’allora Presidente del Consiglio Mario Draghi hanno siglato il Patto per Napoli, un accordo destinato a segnare una svolta nella gestione delle finanze comunali.

    Voluto fortemente dal primo cittadino già in fase di campagna elettorale, l’accordo si pone l’ambizioso obiettivo di risanare le disastrate finanze del Comune partenopeo e rilanciare la città attraverso una serie di riforme e interventi straordinari. Tuttavia, dietro l’apparente promessa di rinascita economica, il Patto cela meccanismi e condizionalità che meritano una riflessione critica, sia per le implicazioni immediate che per le prospettive di lungo periodo.

    Le premesse del Patto

    Il Patto per Napoli prevede lo stanziamento di fondi straordinari da parte dello Stato per sostenere il Comune, gravato da un pesante indebitamento storico. In cambio, il Comune è obbligato a intraprendere un percorso di rigido risanamento finanziario, con misure che includono l’alienazione e la valorizzazione del patrimonio pubblico. A gestire questo processo sarà INVIMIT S.p.A., una società controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, incaricata di favorire la vendita o la concessione a privati di beni pubblici di rilevante valore storico e culturale, come Castel dell’Ovo o Palazzo Cavalcanti.

    Dietro il termine “valorizzazione”, si nasconde spesso un percorso che nella pratica equivale alla privatizzazione, sia diretta che indiretta, di beni che rappresentano non solo la storia e l’identità della città, ma anche una risorsa strategica per il suo sviluppo futuro. Questo approccio, seppur giustificato dalla necessità di riequilibrare i conti pubblici, rischia di snaturare la funzione sociale del patrimonio pubblico e di sottrarlo alla fruizione collettiva.

    Il peso del pareggio di bilancio

    Il contesto normativo italiano aggiunge un ulteriore livello di complessità. Con l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione nel 2012 (articolo 81), gli enti locali sono obbligati a mantenere un equilibrio rigoroso tra entrate e uscite, limitando drasticamente la possibilità di ricorrere al deficit per finanziare servizi essenziali. Napoli, già in difficoltà a causa di una cronica carenza di entrate autonome e di un debito accumulato, si trova così costretta a comprimere ulteriormente la spesa o a intraprendere misure straordinarie, come la vendita del patrimonio, per rispettare questi vincoli. 

    La rigidità di tali parametri è stata più volte criticata, anche dalla Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 275 del 2016 ha ribadito che i vincoli finanziari non possono prevalere sui diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Corte ha sottolineato l’obbligo di assicurare i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), previsti dall’articolo 117, per garantire i diritti sociali fondamentali su tutto il territorio nazionale. Tuttavia, la mancata attuazione di questi principi ha lasciato Napoli e molte altre città del Sud senza strumenti adeguati per affrontare le disuguaglianze territoriali e garantire i servizi essenziali ai cittadini.

    Federalismo fiscale e disparità territoriali

    Un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dal federalismo fiscale, introdotto dalla legge n. 42/2009, che ha aggravato le disparità tra Nord e Sud. Come spiegato da Marco Esposito nel suo libro Zero al Sud, il federalismo fiscale si è basato sul criterio della “spesa storica”, penalizzando le aree già svantaggiate. In pratica, le risorse assegnate agli enti locali si basano su quanto storicamente speso, ignorando le effettive necessità territoriali e perpetuando così le disuguaglianze.

    Nel caso di Napoli, questo sistema ha significato una sostanziale esclusione dalle risorse necessarie per garantire servizi come sanità, istruzione e trasporto pubblico, lasciando la città in una posizione di estrema fragilità. La mancata definizione dei LEP, nonostante le pronunce della Consulta, rappresenta un ulteriore fallimento nell’attuazione del principio di solidarietà territoriale sancito dalla Costituzione.

    Un Patto condizionato: il ruolo di INVIMIT e l’impatto sul principio di solidarietà

    Il Patto per Napoli, pur collocandosi nel contesto di un accordo nazionale per il risanamento delle finanze locali, introduce condizionalità che sollevano interrogativi sulle implicazioni per la governance e la gestione del patrimonio pubblico. L’accesso alle risorse previste dal Patto è subordinato al rispetto di stringenti parametri e all’attuazione di interventi specifici, tra cui la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico mediante piani gestiti da INVIMIT S.p.A., società controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

    Questo approccio richiama dinamiche osservate in contesti di risanamento economico caratterizzati da rigorose condizioni di accesso ai fondi, dove il perseguimento dell’equilibrio finanziario è prioritario rispetto ad altre istanze, come la salvaguardia del patrimonio collettivo o la tutela delle funzioni sociali dei beni pubblici. Sebbene il contesto sia diverso da quello di interventi di governance esterna come quelli associati a situazioni di emergenza macroeconomica, si possono individuare similitudini nella centralità attribuita al monitoraggio e nella limitata flessibilità lasciata agli enti locali.

    La scelta di affidare a INVIMIT S.p.A. il compito di “valorizzare” i beni pubblici, una funzione che potrebbe includere alienazione o concessione a terzi, si inserisce in una strategia di efficientamento economico che privilegia logiche di mercato. Tuttavia, tale impostazione non prevede necessariamente strumenti di tutela esplicita del valore sociale, culturale e simbolico dei beni coinvolti. Questo modello potrebbe comportare una riduzione della disponibilità di risorse patrimoniali strategiche, convertite in strumenti di riequilibrio economico, con potenziali conseguenze sul lungo termine per la città.

    L’assenza di una garanzia che tali operazioni si svolgano in un quadro che contempli una chiara funzione pubblica dei beni sottoposti a valorizzazione pone il rischio che decisioni legate a esigenze finanziarie contingenti possano influire negativamente sulla capacità di Napoli di mantenere il proprio patrimonio come elemento integrante del suo sviluppo culturale, sociale ed economico.

    L’intera impostazione del Patto appare in tensione con il principio di solidarietà territoriale sancito dalla Costituzione. L’enfasi sul risanamento attraverso strumenti strettamente economici, senza un parallelo rafforzamento delle garanzie per la tutela dei diritti fondamentali e dei servizi essenziali, rischia di accentuare le difficoltà di amministrazioni già strutturalmente svantaggiate. La mancata attuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), più volte richiamati dalla Corte Costituzionale come prerequisito per garantire pari diritti su tutto il territorio nazionale, amplifica le disuguaglianze territoriali e lascia i Comuni del Sud in una condizione di maggiore vulnerabilità rispetto agli obblighi imposti dai vincoli di bilancio.

    In questa cornice, il Patto per Napoli assume una configurazione che, pur non essendo paragonabile a una gestione straordinaria esterna, richiama una logica che subordina l’autonomia locale e la tutela del patrimonio collettivo a priorità economiche di breve termine, con una supervisione che limita la possibilità di adattare gli interventi alle specifiche esigenze territoriali. 

    Secondo il prof. Alberto Lucarelli, Presidente dell’Osservatorio per il Patto per Napoli, l’accordo sottoscritto tra il Comune di Napoli e il Governo centrale implica una privatizzazione di fatto del patrimonio pubblico, mascherata da operazioni di valorizzazione. Lucarelli sottolinea come la scelta di affidare la gestione a INVIMIT e di alienare beni storici come i monumenti della città rischi di compromettere la loro funzione sociale e culturale, trasformandoli in merce per risanare i conti pubblici a breve termine. La condizione di debolezza finanziaria del Comune e i vincoli di bilancio, secondo Lucarelli, non giustificano la svendita del patrimonio culturale della città, che dovrebbe invece essere preservato come bene comune, funzionale non solo all’equilibrio economico, ma anche al benessere collettivo e al progresso sociale.

    Un nuovo modello per Napoli

    Di fronte a questa situazione, appare evidente la necessità di adottare un modello alternativo che vada oltre le logiche di mercato e garantisca una gestione partecipata e sostenibile del patrimonio pubblico. Come sottolineato da Marco Esposito e da altri studiosi, la definizione dei LEP e l’introduzione di un bilancio sociale, ambientale e di genere rappresentano strumenti fondamentali per garantire un’equa distribuzione delle risorse e tutelare i diritti fondamentali dei cittadini.

    Napoli, città simbolo di resilienza e innovazione politica, potrebbe diventare il laboratorio per un nuovo modello economico e sociale, basato sulla partecipazione attiva dei cittadini e sulla tutela del patrimonio come bene comune. Questo approccio, che richiede una revisione delle priorità nazionali e un superamento delle attuali disuguaglianze, potrebbe rappresentare la vera rinascita per una città che, ancora una volta, si trova a lottare per il proprio futuro.

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