Gian Maria Volonté è stato uno dei massimi attori italiani – probabilmente, il più grande ad essere tanto oscurato dalla memoria collettiva. La sua carriera non è stata quella del solo interprete: egli era cittadino, militante e “partigiano”, prima che attore di mestiere.
Lo scorso anno è stato il trentennale dalla morte. Con nostro pur colpevole ritardo, proviamo a darne un abbozzo di ricordo, affrescando un rapido ritratto. Con l’augurio che venga ripreso anche nel mainstream.
(Per quest’articolo mi rifaccio ai pezzi di Laura Cusmà Piccione e Daniele Tuccillo di cui vi lascio appunto ora il riferimento per una lettura più agevole dopo. Per altri riferimenti, verranno adeguatamente segnalati.)
Ladro di anime
Su Volonté, la descrizione più nota e calzante è quella del regista Francesco Rosi (che aveva lavorato con Volonté in Il caso Mattei, 1972): secondo Rosi, questo attore «rubava l’anima ai personaggi». Un ladro di anime, come testimonia questo aneddoto sul set di Todo modo, pellicola sottovalutata, a lungo introvabile e non così di successo all’uscita – che però riuscì a descrivere perfettamente prima e a prevedere poi la parabola politica e personale di Aldo Moro e dei patriarchi DC.
Orbene, in questo film del 1976 Volonté aveva il ruolo ispirato proprio alla figura di Moro. Tanto si immerse nel personaggio che lo stesso regista, Elio Petri, ricorda la somiglianza tra i due tanto certosina e maniacalmente perfettina da risultare «nauseante, imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco». E i primi due giorni di riprese vennero cestinati per ordine di Petri: bisognava interpretare un personaggio del film ricalcato su Moro, non mettere Moro nel film!
Basterebbero due frasi dell’attore per capire il senso che dava al rapporto tra professionisti della settima arte: «Tu pensa a dove vuoi mettere la cinepresa, al personaggio ci penso io» e «L’attore può portare un grande contributo linguistico al film senza per questo sottrarre nulla all’autonomia e alla libertà di espressione dell’autore». Orizzontalità di ruolo e cooperazione su rispetto reciproco anche sul posto di lavoro.
Per capire di persona la versatilità (politica e attoriale) convincente di Volonté, eccovi alcune scene che potete visionare: il dialogo con Mastroianni in Todo modo, la difesa di Bartolomeo Vanzetti in Sacco e Vanzetti (1971; qui una comparsa pare si sia commossa alle lacrime, con disappunto della regìa), il discorso in fabbrica di Lulù in La classe operaia va in Paradiso (1971), repressione e civiltà in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e la lezione di semiologia giornalistica in Sbatti il mostro in prima pagina (1972). Mi auguro che, se non altro, abbiano incuriosito a cercare qualcosa in più su questo attore.
Allora, vista la bravura (e la passione, soprattutto) in ruoli “impegnati”, si sollevano due domande. Prima: come mai in Italia teniamo tanto spesso e volentieri nell’oscurità Gian Maria Volonté e il suo lascito artistico? Seconda: come mai fuori dall’Italia il suo nome è legato a tutt’altre pellicole che non quelle “impegnate”?
Lo spettacolo politico…
Volonté fu poco professionista nel senso odierno del termine – ossia un soggetto che nel proprio mestiere si limita al compito previsto appunto dalla forma “pura”, astorica del ruolo lavorativo. Un automa, insomma: un automa stipendiato la cui vita “vera” è quella al di fuori della professione. Per Volonté no, la professione in ogni modo è militanza.
«Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita.»
È questa l’idea-chiave di tutta la sua persona – e così dei suoi personaggi, diretta emanazione d’un rapporto dialettico con il soggetto umano, le condizioni oggettive e l’ambiente. Un po’ come Socrates nel calcio, si è trattato d’una persona che concepiva la vita privata, quella lavorativa e quella pubblica come un tutt’uno: l’impegno politico, le convinzioni personali e l’attività professionale non solo non sono in contrasto – di più: esse sono solo facce diverse della stessa medaglia, che è il soggetto umano a tutto tondo.
Ovviamente, in un Paese come l’Italia che – da Mecenate alle corti rinascimentali passando per le commissioni della Chiesa e la riorganizzazione risorgimentale – ha praticamente inventato il ruolo dell’intellettuale come strumento del potere e non come mezzo di emancipazione (basti vedere le differenze tra il Naturalismo francese, progressista e radicale, e il Verismo nostrano, conservatore e fatalistico), questa considerazione non poteva che portare a far vivere Volonté in un mondo di mezzo, tra la gloria delle star cui era destinato per carriera e la penombra grigia e sospettosa degli “istituti culturali di massa per la memoria” occupati dai difensori dello status quo.
E così, mentre altri uomini di spettacolo come Alberto Sordi o Totò si sono salvati ‘limando’ i lati socialmente attivi e lasciando quelli di virtuosismo di mestiere, Volonté in Italia ha pagato lo scotto del considerare la sua persona la base dei personaggi e non viceversa. Sì, come Socrates alla Fiorentina non si è ambientato così bene (o, meglio, la società non si è ambientata a lui!), e il calcio professionistico l’ha gettato nel dimenticatoio mentre fu – con l’esperimento della democrazia corinthiana – uno dei più originali sperimentatori e innovatori del gioco.
Abbiamo risposto involontariamente anche alla seconda domanda. Fuori l’Italia, Volonté è ricordato quale perfetto villain della Trilogia del dollaro (1964-1966), che degli spaghetti western è un cult e dell’attore fece un divo. La versione bonaria di Volonté, se vogliamo, quella commercializzabile (anche perché come commercializzare Lulù o i Documenti su Giuseppe Pinelli?). Questa versione ebbe largo successo; ma l’eroe – Clint Eastwood – rimase, mentre l’antagonista non ha avuto la stessa fortuna.
D’altronde, Volonté entrò in questo ruolo molto mediatico e poco civile per un motivo preciso: «Sto facendo un filmetto in fretta e furia per pagare i debiti del Vicario [una sua sfortunata pièce teatrale]; figuratevi che è un western italiano, e si intitola Per un pugno di dollari. Lo faccio veramente per un pugno di dollari, ma certo non può nuocere alla mia carriera. Mi hanno conciato come un matto, sono irriconoscibile, e nei titoli di testa avrò persino uno pseudonimo americano, John Wells. Insomma, non corro alcun rischio. Chi volete che vada a vederlo?»
…e il politico di spettacolo
C’è anche da dire che Volonté fu un militante iscritto al PCI fino al 1977, staccandosi al tempo del Compromesso storico – e qui possiamo ritornare alla critica al sistema DC di cui era stato fedele interprete in Todo modo. Forse condividendo le parole di Leonardo Sciascia, che così parlerà dopo l’uscita del film: «Un processo che suona come un’esecuzione… Non esiste una Democrazia cristiana migliore che si distingua da quella peggiore, un Moro che si distingua in meglio rispetto a un Fanfani. Esiste una sola Democrazia cristiana con la quale il popolo italiano deve decidersi a fare definitivamente e radicalmente i conti.»
Con 26.000 preferenze, fu anche consigliere regionale del Lazio per il Partito comunista. Pochi mesi del 1975, dimessosi con la seguente motivazione: «Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso.» Fu poi, nel 1992, inutilmente, nelle liste alle politiche pel PDS, ma non prima di aver avuto amicizie in Autonomia operaia.
La sua visione politica e sociale rimbomba in queste sue parole: «Noi speriamo in un mondo che riesca a migliorare la qualità della vita di tutti: l’ambiente, la possibilità di conoscere, la possibilità di comunicare e di informare. E, soprattutto, la possibilità di eliminare tutto quello che è oggetto per distruggersi come le armi, le guerre, la pena capitale. Ed io credo che già quello sarebbe un grande cambiamento.»
In questa vita, conclusasi a soli sessantun anni nel 1994, è allora quasi ironico che l’ultima pellicola dovesse essere Lo sguardo di Ulisse, un’Odissea moderna nello spazio post-socialismo reale dei Balcani. Gian Maria Volonté morì d’infarto proprio durante le riprese, dovette essere sostituito da Harvey Keitel e il film fu dedicato alla sua memoria. Come se il «secolo breve» non potesse sopravvivere senza uno dei suoi migliori interpreti culturali, e l’interprete fosse infine svuotato d’ogni significato.
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