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    “PERFECT BLUE”: L’INNOCENZA PERDUTA DEL GIAPPONE

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    Il 22 aprile del 2024 è accaduto un piccolo miracolo. Per tre giorni è stato proiettato nelle sale un film che non solo alla sua uscita in Italia non venne distribuito, ma la cui vendita era destinata prettamente all’home video in VHS.

    Si tratta del primo lungometraggio di Satoshi Kon, un autore scomparso nel 2010 a soli 46 anni e che ha lasciato alle sue spalle un’eredità inestimabile, non solo per l’animazione mondiale ma soprattutto per la decostruzione dei lati più oscuri e macabri della società giapponese, una tematica costante in tutta la sua produzione che comincia nel 1997 con il film che lo consacrò tra i grandi dell’animazione: Perfect Blue. 

    IL FENOMENO IDOL

    Il fenomeno dei e delle “Idol” nasce ufficialmente in Giappone all’inizio degli anni ‘70, sia grazie alla grande influenza occidentale (vedasi i Jackson 5), sia, andando fino agli anni ‘50, alla necessità di leggerezza e svago percepita dalla nazione dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale.

    Si tratta di solisti o gruppi di cantanti che sono esplosi definitivamente negli anni ‘80 raggiungendo una popolarità paragonabile a quella del calcio in Italia, e che ammaliano ancora oggi centinaia di migliaia di fan in tutta la nazione con balli perfettamente coreografati e canzoni pop orecchiabili.

    Ma a cosa è dovuta questa popolarità smisurata? Se ci pensiamo alla fine, non sono poi diverse da altri tipi di performer come attori o cantanti, ma c’è un elemento distintivo della loro figura che ne ha determinato il successo: il rapporto con i fan. Non si tratta infatti di attrici divinizzate o modelle, ma di ragazze debuttanti le cui “imperfezioni” erano l’essenza dell’attrazione che i fan provavano verso di loro; si poteva distinguere un vero sentimento di supporto rivolto verso queste giovani che volevano realizzare i loro sogni a qualunque costo. Questo fino al periodo della bolla economica giapponese quando, a cavallo tra anni ‘80 e ‘90, la nazione venne travolta da un’ondata di iper produttività lavorativa, un fenomeno che determinò un fermento economico e la ricerca della perfezione nel lavoro, colpendo inevitabilmente tutti i settori, compreso quello delle Idol. Da allora nacque una certa coesistenza parassitaria tra la necessità di escapismo dagli oppressivi ritmi lavorativi e queste fanciulle dedite esclusivamente al loro ‘avatar’. 

    Si parla infatti degli ‘avatar’ di ragazzine la cui vita viene presa bruscamente, e che vengono traviate, influenzate e asservite al mondo dell’intrattenimento e ai loro fan che guardano a loro come delle vere e proprie dee intoccabili e perfette; uno status che va mantenuto ma che viene immediatamente meno nel momento in cui mostrano i primissimi segni dell’età, nonostante venga chiesto loro di mantenere la loro purezza illibata. 

    Sorge qui l’ipocrisia e il viscidume degli adulatori che da una parte esigono che esse mantengano questo status, e dall’altra si sentono singolarmente autorizzati ad essere i corruttori, sessualizzandone e prostituendone l’immagine; lo stesso tipo di ipocrisia che riscontriamo oggi nel rapporto tra pornoattrice e spettatore, dove questo si sente sia nella posizione di fruire dei servizi proposti sia di criticare chi li propone.

    La regia del marcio del Giappone

    Alla luce di ciò, è comprensibile come nonostante per la protagonista Mima, membro delle “Cham”, la carriera di attrice sia una sorta di riscatto, si ritrovi in realtà a ricoprire una posizione considerata come “socialmente inferiore”.

    Vediamo quindi come Kon racconti un Giappone arretrato e maschilista attraverso la storia della musica j-pop e delle Idol, che vengono generate ‘dal nulla’ e gettate via come fossero spazzatura, nonché attraverso la fobia dei giapponesi per il sesso, che cela le loro più assurde perversioni. Tutto questo è costruito con gli strumenti di un thriller psicologico a tinte horror nella storia di un ex Idol perseguitata da uno stalker, passando da scene di realismo puro a montaggi allucinogeni, surreali e grotteschi, specchio dell’esaurimento nervoso di Mima che non distingue più la realtà dalla fantasia.

    Non era assolutamente comune che negli anni ‘90 un regista giapponese criticasse con tale asprezza e spietatezza la sua stessa società.

    L’animazione è una tecnica, non un genere

    Nessuno si aspettava che questa storia potesse essere trasposta in animazione – i produttori stessi avevano pensato al film come un live action e non animato – ecco perché il Giappone ne fu spaventato. I tratti macabri del film raggiungono forse il loro apice nella scena dello ‘stupro recitato’ dove il gioco registico e gli strappi dei vestiti di Mima che sta recitando sulla scena, sono talmente ben gestiti da farlo sembrare reale non solo a Mima stessa, ma anche a noi, mettendoci in uno stato di vera e propria ansia e preoccupazione. Per citare Federico Frusciante potremmo dire che Satoshi Kon “Ha fatto in modo che i bambini scappassero dal cinema e gli adulti ci entrassero”, una frase che riassume perfettamente l’influenza di questo artista. Comprendiamo quindi che la vera violenza subita non è fisica, ma mentale, figlia degli anni trascorsi come vittima dell’industria.

    In momenti come questi Kon dimostra un’idea perfetta di regia e un utilizzo della macchina da presa filmico al 100%, al punto di farci dimenticare che ciò che stiamo guardando non è interpretato da attori reali; ci fa comprendere che l’animazione va usata come uno strumento al servizio del cinema e che va quindi identificata come una tecnica alla base della quale troviamo il genere del film.

    A posteriori possiamo dire che abbia creato una vera e propria rottura nel cinema: creando una protagonista la cui mente si infrange progressivamente come un cristallo e mostrandone la discesa nella follia, ha saputo sfruttare al meglio la tecnica pura dell’animazione, mostrando al pubblico come fosse possibile mostrare questo tipo di protagonista figlia di Hitchcock senza l’uso di strabilianti effetti speciali.

    L’influenza

    Al netto di ciò dobbiamo quindi riconoscere a registi come Satoshi Kon o anche Mamoru Oshii (regista di “Ghost in the Shell”, 1995) di aver combattuto una vera e propria battaglia per il riconoscimento della commistione tra questi tipi di genere e tecnica, una battaglia grazie alla quale registi come Christopher Nolan o Darren Aronofsky possono vantare il lustro di cui godono oggi: nel primo caso è evidente come “Inception” sia sostanzialmente un adattamento live action di “Paprika”; le modifiche alla trama sono sicuramente sostanziali ma il soggetto e l’idea del costante salto tra realtà e sogno è il medesimo. Nel secondo caso invece la perdita di senno e la discesa nella follia causate dall’ossessione viene semplicemente trasposta dal mondo delle Idol e dell’intrattenimento giapponese a quello della danza classica.

    Insomma, i parallelismi sono palesi ma chiaramente Hollywood non guarda in faccia a nessuno e nessuno dei due registi ha mai nemmeno citato il vero creatore dei loro film. 

    Quello che possiamo fare noi però, è ricordare i grandi maestri che non solo hanno cambiato il cinema ma che si sono preoccupati di mostrare anche la loro vocazione sociale e di rappresentare le rispettive società nei lati più marci e traviati, oltre alle loro immagini idealizzate che queste ci propongono.

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