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    Quattro anni di presidenza: l’eredità di Joe Biden

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    Lunedì 20 gennaio si terrà l’insediamento del Presidente eletto Donald Trump.

    Con la fine del mandato del Presidente Joe Biden possiamo iniziare a riflettere, seppur prematuramente, sulla legacy e gli eventi cruciali che hanno connotato questi quattro anni di presidenza, dall’agenda economica alla politica estera, dai rapporti con gli alleati e quelli con la Cina, dalle risposte nei confronti della Russia e alla gestione del conflitto in Medio Oriente. 

    Resta un interrogativo fondamentale: le sue politiche avranno effetti duraturi o saranno smantellate al più presto da Donald Trump? 

    Nuovi paradigmi economici

    Negli ultimi dieci anni l’orientamento economico dell’establishment politico statunitense è cambiato in modo rilevante. Se dall’inizio degli anni ‘80 gli USA si sono fatti promotori del modello neoliberale e liberoscambista, eventi come la crisi del 2008 e l’elezione di Donald Trump nel 2016, insieme alla prepotente ascesa della Cina, hanno comportato un ripensamento complessivo dell’approccio all’economia. 

    Il primo tassello, come già ricordato, è stata l’elezione di Trump e l’attacco al libero mercato sferrato a suon di dazi. Già durante il decennio scorso era opinione diffusa a Washington che l’assenza di barriere doganali avesse penalizzato eccessivamente l’industria statunitense e avvantaggiato i competitors, Cina in primis.  

    Il secondo tassello è arrivato con la presidenza Biden, segnata da un ritorno dirompente della politica industriale negli Stati Uniti, abbandonata progressivamente a partire dalla presidenza Reagan. Se fino a dieci anni fa l’intervento dello stato nell’economia era visto con sospetto, ora viene ritenuto necessario per sostenere la crescita economica e la competitività delle industrie nel mondo globalizzato. 

    I rapporti commerciali

    L’amministrazione Biden è riuscita a varare diversi programmi di investimenti, tra i quali l’Infrastructure Bill (IIJA), l’Inflation reduction act (IRA) e il Chips and science act.

    Questi programmi mirano rispettivamente alla modernizzazione delle infrastrutture, all’incentivazione dell’industria green e della produzione di semiconduttori sul suolo statunitense. Anche se è presto per giudicare gli effetti di queste politiche, è necessario precisare un rilevante aumento degli investimenti privati nei settori toccati dai programmi. 

    L’economia statunitense è riuscita a riprendersi piuttosto velocemente dalla pandemia e ad evitare la stagnazione che ha colpito i paesi europei. I risultati della crescita economica sono stati rilevanti anche per la classe lavorativa e per le minoranze, beneficiarie di varie misure di welfare varate a seguito della pandemia. Ciononostante, l’opinione pubblica è rimasta piuttosto pessimista a causa dell’alta inflazione nel biennio 2022-2023, che ha eroso buona parte degli aumenti salariali. 

    Nell’ambito dei rapporti commerciali, l’amministrazione Biden ha agito talvolta in continuità con Trump, talvolta in modo differente. Del Presidente Biden è stata la decisione di abolire i dazi doganali istituiti da Trump nei confronti di alluminio e acciaio prodotti nei paesi dell’Unione europea, nell’ambito di una generale politica di riconciliazione con gli alleati. 

    I rapporti economici con la Cina

    Una sostanziale continuità con Trump c’è stata invece per quanto riguarda i rapporti commerciali con la Cina, seppur con delle differenze. In questi quattro anni Biden non ha abolito i dazi imposti da Trump, anzi, ne ha imposti di nuovi, sintomo del definitivo cambio di rotta intrapreso da Washington in politica commerciale.  

    Nei confronti della Cina, Biden ha perseguito la politica dello small yard, high fence, ossia tutta una serie di tariffe e restrizioni non imposte indiscriminatamente (come ha dichiarato di voler fare Trump), ma su specifici settori ritenuti strategici

    Gli esempi migliori sono sicuramente i dazi imposti nel 2024 su veicoli elettrici e batterie prodotti in Cina, con lo scopo di proteggere l’industria domestica statunitense. Inoltre, in questi giorni la Casa Bianca ha deciso di varare nuove restrizioni all’export di chip avanzati verso la Cina. 

    Ritorno al multilateralismo

    Un deciso punto di rottura con la precedente amministrazione Trump può essere rintracciato nella politica estera e nei rapporti con i paesi alleati. 

    Se Trump ha fatto parlare di sé per il suo approccio aggressivo, transazionale e unilaterale, Joe Biden ha impostato l’agenda della politica estera americana sul multilateralismo, sul ritorno al dialogo costruttivo con gli alleati e sull’importanza della democrazia. Dopo quattro anni caratterizzati dai toni accesi di Donald Trump, Biden ha adottato un approccio decisamente più in linea con la tradizione diplomatica statunitense degli ultimi trent’anni, seguendo il concetto della ‘pace democratica’

    I primi provvedimenti degni di nota sono stati il ripristino della membership statunitense in diversi accordi internazionali, come gli Accordi di Parigi sul clima e l’OMS, dopo il ritiro unilaterale da parte dell’amministrazione Trump. 

    In Europa, Biden ha cercato di riguadagnare la fiducia degli alleati. Se Trump aveva spesso criticato i paesi europei per non spendere abbastanza in difesa, l’amministrazione Biden ha adottato toni decisamente più conciliatori, dimostrando la volontà di ricucire e rafforzare i legami transatlantici. Soprattutto a partire dallo scoppio della guerra in Ucraina, la NATO è parsa “resuscitare” e 23 paesi hanno raggiunto o superato la quota del 2% per le spese militari. 

    Diverse le iniziative prese nell’area dell’Indo-Pacifico, a cominciare dal rafforzamento dei rapporti con l’India in funzione anti-cinese, all’accordo AUKUS con Regno Unito e Australia, l’elevazione del QUAD (quadrilatero USA-Giappone-Australia-India) da conferenza interministeriale a summit di capi di Stato e di Governo, al rafforzamento del dialogo trilaterale con Giappone e Corea. La strategia statunitense in questo angolo di mondo è finalizzata principalmente al contenimento della Cina e alla salvaguardia degli alleati.  

    Il mondo in fiamme

    Lo scenario internazionale è drammaticamente mutato dal giorno di insediamento del Presidente Biden nel Gennaio 2021. Sono scoppiati due conflitti, Ucraina e Medio Oriente, e gli equilibri internazionali sono messi in discussione dalle potenze revisioniste, Cina, Russia e Iran. Come ha reagito l’amministrazione a queste sfide?

    Il primo evento degno di nota è stato il ritiro definitivo delle truppe statunitensi dall’Afghanistan nell’Agosto 2021, nell’ambito degli accordi di Doha del 2020 stipulati da Donald Trump. Ritiro giudicato disastroso, il quale ha di fatto assestato un duro colpo al tasso di approvazione del Presidente e avrebbe messo gli USA in una posizione di debolezza sullo scacchiere internazionale. 

    Qualche mese dopo, il 24 Febbraio del 2022, la Russia ha invaso l’Ucraina, riportando la guerra in Europa per la prima volta dal 1945. Gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere in modo più o meno incondizionato l’Ucraina, inviando armi (carri armati, sistemi di difesa aerea, missili, munizioni) e imponendo dure sanzioni alla Russia, isolandola di fatto dal blocco dei paesi occidentali.

    Le scelte di Biden sono motivate dalla volontà di proteggere un paese democratico e il suo diritto all’autodeterminazione dall’aggressione di un’autocrazia. Lungi dal voler approfondire un conflitto che meriterebbe molto più di qualche battuta, occorre focalizzarsi su vari punti importanti: la difficoltà di un cessate il fuoco, il futuro dell’Ucraina e delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, le sorti del conflitto dopo l’insediamento di Donald Trump. La situazione rimane tuttavia in stallo da vari mesi, e non è ancora chiaro come le parti intendano porre fine al conflitto. 

    Il Medioriente

    Sul fronte mediorientale l’amministrazione ha dovuto affrontare difficoltà più o meno analoghe: un sanguinoso conflitto, quello tra Israele e Hamas, e la difficoltà nel raggiungere un cessate il fuoco. Nonostante Tel Aviv abbia una relazione privilegiata con gli Stati Uniti, Biden ha spesso mostrato insofferenza verso il Primo Ministro israeliano Netanyahu, a causa della sua intransigenza e della condotta della guerra non particolarmente attente al rispetto del diritto umanitario. Molti sono stati i tentativi di porre fine al conflitto, testimoniati dai moltissimi viaggi del Segretario di Stato Blinken in Medio Oriente. A livello mediatico, tuttavia, il messaggio trapelato è stato spesso quello di un Presidente in difficoltà e incapace di esercitare influenza sul suo alleato

    Il 15 gennaio 2025 è stato infine raggiunto un accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas, il quale prevede il graduale rilascio degli ostaggi e dei prigionieri palestinesi, il ritiro dell’esercito Israeliano dalla striscia di Gaza e l’inizio della ricostruzione. 

    Molti critici di Biden (soprattutto dal Partito Repubblicano) hanno spesso evidenziato la mancata capacità del Presidente di gestire i due conflitti. In particolare, si è fatto leva sulla presunta debolezza che l’amministrazione avrebbe mostrato nei confronti di Russia, Iran e Cina, incoraggiandone l’aggressività. Anche Donald Trump ha cavalcato l’onda in campagna elettorale per criticare Biden, affermando ogni volta che, se fosse stato presidente, nessuna delle guerre attualmente in corso sarebbe scoppiata. Tutt’oggi, la difficoltà nel porre fine al conflitto in Ucraina è uno degli argomenti su cui i critici fanno maggiormente leva. 

    Conclusioni: l’ultimo establishment liberal alla Presidenza

    Con il termine del mandato di Biden la politica statunitense si avvia verso un vero e proprio ricambio generazionale. Il Presidente sarà con molta probabilità uno degli ultimi esponenti della classe dirigente di lunga data formatasi durante la guerra fredda, lasciando spazio a nuove personalità cresciute dopo la caduta del muro di Berlino.

    Nei suoi 50 anni di carriera, Joe Biden è stato uno degli esponenti più rilevanti della corrente establishment liberal del Partito Democratico, quella più moderata e incline a cercare compromessi con i Repubblicani. Uno dei pochi sopravvissuti alla crescente polarizzazione della politica statunitense insomma. Sarà interessante notare quale direzione prenderà il Partito Democratico dopo la sua leadership: guarderà al centro, come fatto da Bill Clinton a inizio anni ‘90, o si sposterà ulteriormente a sinistra?

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