Non si contano le lamentele sulla presenza di personaggi LGBT+ nelle pellicole di questi anni – almeno prima del ritorno del trumpismo, poi vedremo. E se vi dicessi che non solo non è nulla di nuovo, ma che le pratiche queer erano già presenti nella cinematografia di cent’anni fa?
O tempora, o mores!
Leggiamo le parole di un consigliere comunale di Parigi, riportate in Queer di Maya De Leo: «La nostra società sta perdendo sempre più stabilità. E dal momento che c’è una crisi morale la nostra società accetta di tollerare al suo interno i discepoli del terzo sesso ed è per questo che si possono vedere questi pazzi insolenti e provocatori vagare per le strade di Parigi oggigiorno. La società parigina mostra una vergognosa indulgenza per questi pazzi che si fanno un motivo di orgoglio nel mostrare pubblicamente il loro vizio, al punto che è oggi di moda, se così si può dire, non amare come tutti gli altri».
Non suonano così nuove, vero? Quante volte le abbiamo sentite parole simili? Tante, ma anche più di quante pensiamo; queste, infatti, sono state pronunciate nel Consiglio della capitale francese… nel 1933.
Il consigliere era l’avvocato e letterato Lionel Nastorg, il quale, senza troppe sorprese, avrebbe così continuato il discorso: «Lungi da me convertirmi al fascismo oggi o domani ma tuttavia dobbiamo riconoscere che in qualche cosa questi regimi hanno operato bene a volte… Un giorno Hitler e Mussolini si sono svegliati e hanno detto: “Onestamente, lo scandalo è andato avanti abbastanza; le strade sono sporche e puzzano; dobbiamo fare una pulizia radicale.” E gli invertiti, i pazzi, i lunatici sono stati cacciati dalla Germania e dall’Italia il giorno seguente.»
Ora, pensando alla presenza mediatica di persone LGBT+ che non si nascondono dietro la veste della “normalità”, difficilmente pensiamo al 1933. Eppure, quelli erano anni in cui la nuova arte che andava diffondendosi – la cinematografia – aveva dato spazio ad ampia divulgazione per soggettività storicamente emarginate. Ovviamente, questo non significa che ci fosse una età dell’oro perduta o che la percezione sociale era inclusiva o tollerante, no. Nonostante ciò, negare che gli anni dei pionieri del cinema fossero anche anni di una certa libertà di rappresentazione (sempre molto relativa, ci s’intenda) sarebbe un errore storico grossolano.
Specchio d’altri tempi
Il cinema, al suo esordio, era un campo libero. I precetti e le norme sociali generali trovavano poche ancore: il cinema era roba di homines novi, avanguardisti della tecnica e della cultura. Il loro successo, pur graduale, iniziò ad attrarre i capitali delle industrie dello spettacolo, ma con ancora maggior gradualità la sua libertà di rappresentazione venne notata dai censori sociali, politici, corporativi. E alla fine i produttori, che per opportunità seguono gli artisti ma ancor di più i capitani d’industria e le istituzioni dello status quo, chinarono il capo. Ma ci arriviamo con calma.
Esiste online un progetto, il Queer Cinema Archive di Derek Le Beau, che pubblica clip e sketch anche dei primi decenni del cinematografo sulla presenza di persone, pratiche o allusioni queer. (PS: uso questo termine come fa Maya De Leo, ossia come termine-ombrello per le soggettività non cis/etero.) Questo archivio in rete mostra scene che facevano gridare all’improprio, al malcostume, al vizio e all’ostentazione – ma che per gli standard odierni, queer o cis/etero, sono abbastanza tranquilli. Eppure, per quello che a noi sembra poco per gridare allo scandalo, alla fine si ricorse alla repressione. Il fatto notevole non è che vi sia stata repressione – cosa che potremmo anche aspettarci, anche perché se sentiamo lamentele oggi, figuriamoci allora. Il vero fatto da sottolineare è che, al netto di costumi più pudici di oggi in ogni campo della società generale, l’elemento queer era presente.
Spesso, c’è da dire, questo elemento era coperto da ingenuità dei personaggi o situazioni comiche – per cui non si trattava di film che smuovevano le coscienze: erano eventi verosimili. E dà da pensare il fatto che i censori sociali abbiamo ritenuto inopportuna anche la rappresentazione dell’esistente: forse che la “famiglia tradizionale” e il “sesso naturale”, in fondo, non sono così tradizionali e naturali? E, oggi, forse si vuol far credere che decenni di censura non abbiano contribuito a un rallentamento dell’emancipazione delle persone LGBT+?
Prime apparizioni
Le apparizioni in drag, ma soprattutto le presenze omosessuali, non erano un tabù. Ovviamente, giova ripeterlo, non con disinvoltura; malgrado ciò, è bene sottolinearlo, la disinvoltura non era molto ampia neppure per le “normalità” sessuali. Così come, per fare un parallelo, oggi decenni di trash TV e carnalità sullo schermo non sono certo appropriazione di una sola sessualità: l’ingresso delle sessualità non-cis/etero è già all’interno di una cornice mediatica erotizzata.
Il primo bacio omosessuale arriverà piuttosto tardi e, con le premesse appena fatte sul costume generale, forse non ce ne sorprendiamo. Era il 1930 quando, in Marocco, Marlene Dietrich, vestita elegantemente da uomo, baciò un’altra donna. Non a caso la protagonista della pellicola – che non è certo un film di emancipazione come si potrebbe pensare – venne pubblicizzata con toni abbastanza espliciti: «Marlene Dietrich, la donna che tutte le donne vorrebbero vedere!»
Arrivati a quel punto, si capisce come elementi queer non fossero marginali nella produzione cinematografica. Anche altre attrici, come Greta Garbo, si prestavano a questo giochetto dell’ambiguità sessuale senza rimorsi. Una parte non così minima del pubblico non dispiaceva – vedete lo slogan di Marocco e immaginate vederlo oggi; quanto si griderebbe al politicamente corretto! Non per nulla i nuovi censori sociali, quelli che oggi si strappano le vesti gridando all’anormalità, non fanno cenno ai loro antenati degli anni Trenta: troppo vicini alle dittature totalitarie novecentesche, da una parte; dall’altra, dovrebbero confermare l’esistenza di un cinema più “libertino” di quello che sarebbe venuto nel trentennio successivo, proprio nel momento in cui la settima arte diventò un prodotto di massa. Così un’intera esperienza storico-artistica cadde nel dimenticatoio, e ci rimane ancora adesso.
La salsa repressiva del Codice Hays
Il primo trentennio del cinema produsse tanti nemici. L’ortodossia dei costumi, tanto più quando le pellicole stavano diventando intrattenimento su larga scala e un business milionario, doveva essere restaurata. Negli USA, dove l’apertura era stata maggiore, le istanze tradizionaliste furono più rumorose.
Associazioni cristiane, politici conservatori e funzionari compiacenti aizzarono una campagna di repressione contro i film e le case produttrici che non mostravano una realtà quasi puritana. Non solo in campo sessuale: la pudicizia doveva riguardare anche la ridicolizzazione della religione (cristiana) e del matrimonio (cristiano), il linguaggio acceso, l’uso di droghe e alcolici, delitti brutali, persino vite criminali e relazioni tra persone di razze diverse.
La pressione si esercitò in vari modi, coinvolgendo diversi canali. Sicuramente non malvista da una grossa parte politica, questa campagna portò dalla propria parte importanti dirigenti pubblici. Sarà decisivo a questo punto l’intervento moralizzatore di William Harrison Hays, burocrate repubblicano, già direttore delle Poste statunitensi, stratega della campagna elettorale presidenziale di Harding nel 1920 e poi primo (1922-1945) presidente della Motion Picture Association (MPA), una sorta di confindustria dei grandi studios degli USA nata con l’obiettivo non secondario di ripulire Hollywood dalle “immoralità” varie.
Il Codice e i principi generali
Hays non ebbe grande successo all’inizio. Ma, a dirla tutta, la pressa puritanesca non agiva nel vuoto. Una sentenza della Corte suprema, già nel 1915, aveva sancito che i prodotti cinematografici – la cui distribuzione era intesa come «una questione di affari, pura e semplice», e non anche un mezzo artistico – non erano soggetti al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, il quale protegge la libertà d’espressione dalle decisioni degli organi politici. Nemmeno vent’anni dopo, questo sostanziale arbitrio diventò questione federale con il Production Code, conosciuto come «Codice Hays» dal nome del promotore principale.
Il Codice seguiva tre principi generali. Primo: «Non si produrrà alcun film che abbasserà gli standard morali di color che lo vedono. Quindi la simpatia dell’uditorio non sarà mai portata dalla parte del crimine, della trasgressione, del male o del peccato» Secondo: «Devono essere presentati corretti stili di vita, soggetti solo alle esigenze del teatro e dell’intrattenimento» Terzo: «La legge, umana o naturale, non sarà ridicolizzata, né sarà creata simpatia verso la sua violazione»
La MPA lo adottò nel 1930, ma i produttori non erano obbligati ad osservarlo. Così si conservò un altro po’ di discrezione nelle sceneggiature, destinata ad essere l’ultima. Nel 1934 arrivò la svolta, quando venne istituita la Production Code Administration, un ente della MPA addetto al rilascio delle autorizzazioni per il film. In tal modo, la censura divenne effettiva. A ben vedere, gli studios preferirono di gran lunga una censura autoregolata piuttosto che il rischio di una censura governativa. In ambo i casi, le soggettività LGBT+ sparirono dagli schermi – oppure, il che è forse peggio, quando (raramente) compaiono sono esempi di vite viziate e non degne: i loro personaggi muoiono, cadono in depressione, in ogni caso non hanno la minima soddisfazione e la loro condizione è ripugnante apposta.
Cade il velo di Maya
Il Codice Hays produsse innumerevoli storture di trama per decenni, almeno fino ai primi anni Sessanta. Opere che nella letteratura scritta avevano esplicitamente personaggi queer venivano totalmente riviste negli adattamenti cinematografici. La situazione iniziò a diventare meno pesante solo un quarto di secolo dopo l’adozione del Codice, e anche la MPA cominciò a rivedere la propria rigidità. Di fatto, però, il Codice sarebbe stato abbandonato solo nel 1967-1968 e il tabù che aveva contribuito enormemente a costruire – andato di pari passo con il dominio statunitense nella settima arte in Occidente – non caddero facilmente.
In Gran Bretagna, intanto, nel 1961 arriva il primo personaggio apertamente omosessuale del cinema d’Oltremanica: l’avvocato londinese Melville Farr dal film Victim, uscito in un momento in cui i rapporti omosessuali erano ancora un reato che conduceva dritto al carcere. Pur non avendo un’esistenza meravigliosa dopo il suo (non volontario) outing, Farr è un rispettabile esponente della City inglese e nel film compaiono altri personaggi gay da famiglie e contesti altrettanto rispettabili, in un miscuglio tra ricatti e indagini poliziesche. Un altro ambiente rispetto a quello miserrimo imposto da Hays sull’altra sponda dell’Atlantico.
Questa rapida ricognizione non ha la pretesa di essere esaustiva, né ha toccato nel profondo le corde del dibattito attualissimo. Spero nessuno sia rimasto deluso; d’altronde, è proprio a partire da una certa coscienza – oltre che conoscenza – storica del fenomeno della rappresentazione LGBT+ nella cinematografia che si può iniziare a prendere posizione nel dibattito di oggi. Un elemento, se non altro, appare chiaro: i precursori di coloro che oggi urlano al non-si-può-più-dire-nulla erano esattamente i responsabili della censura, quella vera, della cancel culture, non solo immaginata ma innalzata a legge.
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