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    Questione di lobbying: la rappresentanza di interessi in Italia

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    All’incrocio tra fantapolitica e realtà, alla luce degli avvenimenti susseguitosi nelle ultime settimane, si colloca un tema rilevante per qualsiasi ordinamento democratico: il lobbying.

    Come di consueto, l’obiettivo che si prefissa il presente articolo è di interrogarci sul tema cercando, per quanto possibile, di dare delle risposte. Le domande sono due: cos’è il lobbying? È lecito?

    La rappresentanza di interessi

    Il primo interrogativo ci chiede di inserire l’attività di cui trattiamo all’interno di un settore più grande: la rappresentanza di interessi. Essa consiste nel portare all’attenzione del pubblico decisore le posizioni e le esigenze di un determinato settore in modo da orientare di conseguenza le scelte amministrative e legislative. Il rappresentante entra nel palazzo del potere e si colloca nell’anticamera della stanza dei bottoni, dove ha modo di dialogare con i soggetti deputati a prendere le decisioni. Lo stesso termine lobby, infatti, deriva dal latino laubia che significa loggia, porticato.

    È chiaro che in una democrazia rappresentativa, dove è materialmente impossibile raggiungere la voce di tutti, ci si rimetta ad individui in grado di catalizzare richieste e punti di vista di interi settori e di importanti gruppi. È l’humus proprio della nostra forma di Stato. Gli stessi parlamentari, d’altronde, ricevono un mandato dal popolo, che rappresentano nelle aule legislative. Dunque, in termini legali, siamo di fronte ad un contratto di mandato in cui un mandante, il vero portatore dell’interesse, dà al mandatario, il rappresentante, l’obbligo di portare all’attenzione delle autorità il suo interesse.

    Il punto, però, è che detta rappresentanza può essere operata da due categorie: i lobbisti e i trafficanti di influenze illecite. I primi sono professionisti che, retribuiti, rappresentano interessi di una intera categoria davanti al potere politico, mettendo a disposizione studi e ricerche capaci di arricchire il materiale conoscitivo del decisore. I secondi, invece, praticano un’attività occasionale nell’interesse di un solo o di pochi soggetti in virtù di una loro influenza sulla politica determinata dalle condizioni storiche e geografiche, portando quindi vantaggi per pochi senza curarsi dei bisogni della collettività.

    Ma in entrambi i casi abbiamo soggetti remunerati per rappresentare interessi, al di là della quantità di mandanti e della professionalità. È infatti ben possibile che vi siano forme di contaminazione tra l’uno e l’altro, quindi un lobbista che fa interessi molto circoscritti o un trafficante di influenze che fa interessi generali. Come possiamo, allora, concretamente e giuridicamente distinguerli? Entra qui in gioco la seconda domanda.

    Per capire se si tratta di lobbying o di traffico illecito di influenze basta comprendere se l’attività ha natura lecita o meno. In caso affermativo sarà lobbying, in caso negativo sarà traffico di influenze illecito.

    Liceità del lobbying

    È opportuno fare riferimento all’articolo 346-bis del Codice penale, che tipizza due tipologie di condotte inquadrabili come traffico illecito di interessi: la mediazione illecita e la remunerazione illecita. La prima riguarda l’attività di chi indebitamente fa dare o anche solo promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione. La seconda, invece, riguarda l’attività di chi indebitamente fa dare o anche solo promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità per remunerare un pubblico ufficiale, collocandosi in una fase evidentemente pre-corruttiva.

    Ai nostri fini diviene rilevante il primo di questi due comportamenti, il quale si differenzia dal lobbying per la sua illiceità, come già evidenziato. Il problema è, però, che non sappiamo riempire di contenuto sicuro i termini lecito e illecito in questo contesto.

    Come se non bastasse un simile grado di problematicità, per quanto riguarda il nostro Paese emerge altresì un altro tema: manca, nell’ordinamento italiano, una legge che disciplini il lobbying e che possa permetterci di tracciare un netto confine. In assenza di un quadro normativo nazionale, sempre più pubbliche amministrazioni si muovono in autonomia, cercando di arginare i complessi rapporti con i portatori di interessi.

    Allo stato attuale, sette Regioni hanno approvato una legge sul lobbying: Toscana, Molise, Abruzzo, Calabria, Lombardia, Puglia, Emilia – Romagna. Ad esclusione della Calabria – dove, a distanza di ben otto anni dall’approvazione della legge in questione, l’Esecutivo regionale ha recentemente deliberato l’istituzione del Registro dei rappresentanti di interessi particolari in tutte le altre Regioni la legge sul lobbying non è stata applicata con efficacia; a mero titolo esemplificativo, va detto che in Lombardia non sono previste norme per impedire il fenomeno delle ‘porte girevoli’ tra politica e affari.

    Data la mancanza di questo importante intervento legislativo, sembra che la linea di demarcazione debba essere tracciata semplicisticamente dal contrasto con norme di diritto civile, penale e amministrativo. Questo, però, comporterebbe un evidente contrasto col principio di legalità in materia penale nella parte della necessità di determinatezza del precetto, al quale conseguirebbe una iper-criminalizzazione.

    Dunque, come propongono autorevoli studiosi, o bisogna interpretare in modo restrittivo l’aggettivo illecito o arrendersi all’incostituzionalità della norma, lasciando una importante lacuna nel nostro ordinamento. Ed è proprio la prima di queste sue soluzioni ad essere adottata dalla Cassazione.

    È illecita la mediazione funzionale alla commissione di un illecito penale, ma non amministrativo o civile, idoneo a produrre vantaggi per il committente privato. Accanto a questa, poi, secondo un orientamento corroborato dalla sentenza Alemanno del 2021, è illecita anche la mediazione operata da un pubblico agente presso un altro pubblico agente.

    Conclusioni

    Alla fine di questa analisi, quindi, possiamo affermare che il tema necessita di un intervento legislativo che possa fare ordine tra le varie interpretazioni, posizioni e teorie che si hanno in merito nella dottrina e nella giurisprudenza. Attualmente risulta altamente complesso comprendere i confini del lobbying, con la conseguenza che la certezza del diritto sia quantomeno vacillante in questo settore, ponendo non pochi problemi.

    La trasparenza, cui deve ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione, impone che i cittadini, gli amministrati, siano a conoscenza del modo in cui le decisioni vengono prese, nel rispetto della pluralità e nell’interesse della collettività.

    Tornando, in conclusione, alle nostre due domande, possiamo affermare che la loro risposta, forse chiara su un piano teorico, certamente non lo è nella pratica. E’ dunque impellente l’esigenza di rendere meno opaco e maggiormente regolamentato il settore.

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