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    La strategia imperiale cinese per sovvertire l’ordine globale

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    Nel 1877 il geologo e geografo tedesco Ferdinand Von Richthofen coniò l’ormai celebre espressione “Via della seta[1]”, senza però immaginare l’impatto che avrebbe avuto nell’età contemporanea. Nella sua opera in cinque volumi intitolata China, Richthofen presentava una visione piuttosto confusa di questo complesso sistema di relazioni che, attraverso itinerari terrestri, fluviali e marittimi, mettevano – e mettono tuttora – in comunicazione diverse regioni. I principali hub commerciali mondiali (portuali, ferroviari e autostradali), oggi come oltre duemila anni fa, sono soggetti a dinamiche geopolitiche e strategiche che fanno della Cina uno dei principali centri industriali globali e leader nei traffici marittimi transcontinentali.

    Una ‘terra troppo rara’ per essere ignorata

    Se Richthofen non comprese appieno la valenza geostrategica del Dragone, fu invece Sir Halford J. Mackinder, nel 1904, a riconoscere l’importanza di questa regione. Considerato uno dei fondatori della geopolitica moderna, Mackinder contrappose la sua visione classica dei fenomeni geopolitici a quella talassocratica di Alfred Mahan, elaborando il concetto di “perno geografico“, situato nel cuore dell’Eurasia, e noto come Heartland. Secondo Mackinder, il controllo di questa regione avrebbe consentito alla potenza dominante di esercitare influenza su tutta la massa continentale eurasiatica e, di conseguenza, su tutto il mondo. Mackinder basò la sua analisi su un principio storico tanto semplice, quanto efficace: la forza dei popoli era determinata dalla loro capacità di controllare i traffici terrestri che, fino al 1500, avevano caratterizzato gli scambi tra Asia ed Europa. Le sue teorie influenzarono la Germania nazista e furono lette anche da politologi e geostrateghi americani per elaborare la strategia del containment contro l’Unione Sovietica. Oggi, nonostante le sofferenze storiche che il popolo cinese ha subito, Pechino non si sottrae a questa proiezione di potere e aspira, seppur non ancora del tutto realizzata, al ruolo di attore egemone su scala globale.

    Questa premessa ci illumina sull’impatto cruciale che i commerci e le relative infrastrutture, intese come arterie fondamentali dell’ordine geopolitico mondiale, esercitano sulla potenza degli Stati e sul benessere delle popolazioni. Gli antichi Romani, probabilmente consapevoli delle potenzialità dell’Asia centrale, lo avevano già intuito, grazie alle informazioni tramandate da Alessandro Magno e alle opere di Plinio il Vecchio dedicate alla geografia asiatica.

    Oggi, secondo le stime della British Petroleum, il 70% delle risorse energetiche mondiali, tra gas e petrolio, è concentrato in Russia, Medio Oriente e Asia centrale. Inoltre, la prosperità agricola che si estende tra il Mediterraneo e il Pacifico rappresenta il 55% della produzione mondiale di grano. Invece, le nuove risorse strategiche, le cosiddette terre rare (litio, terbio, disprosio, ittrio), si trovano in abbondanza in Paesi come la Russia e la Cina, inclusa Taiwan.

    Pechino ha perfettamente colto queste opportunità e non intende ignorarle. Tuttavia, il crescente interesse del Dragone per i mercati transoceanici e le sue ambizioni espansionistiche globali stanno generando dinamiche geopolitiche rilevanti, a cui l’Occidente risponde con strategie di contenimento per contrastare una possibile ‘cinesizzazione’ dell’ordine mondiale. Secondo il World Factbook della CIA, l’industria e l’edilizia costituiscono il 47% del PIL cinese, rendendola la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti. Settori come il minerario, l’industria dell’alluminio, il carbone, il petrolio, il cemento, i fertilizzanti, i prodotti chimici e i dispositivi tecnologici dipendono fortemente da materie prime (come le terre rare necessarie per la costruzione di batterie nell’industria high-tech), da un’efficiente logistica, da mercati sia domestici che globali e, di conseguenza, da una solida capacità di trasporto interna e transcontinentale. Sotto questo aspetto, oggi, Pechino sembra non avere rivali.

    Un filo che collega il mondo

    Otto porti cinesi figurano tra i primi 20 al mondo, gestendo il 55% del traffico container globale. Solo Shanghai, Hong Kong e Shenzhen movimentano insieme circa 75 milioni di container, su un totale di 120 milioni annui. Questi numeri dimostrano chiaramente le straordinarie capacità dell’infrastruttura portuale cinese che, oltre a essere integrata in nodi finanziari e industriali decisivi, rappresenta un pilastro per l’economia del Paese. La strategia marittima della Cina, sviluppata a partire dagli anni ’80 con l’espansione delle rotte globali, il gigantismo navale e la containerizzazione, ha visto le sue compagnie marittime protagoniste di un’incredibile crescita. Le merci cinesi raggiungono oggi i principali hub europei, tra cui il porto di Rotterdam, punto d’accesso privilegiato per i mercati del continente grazie alle sue eccelse capacità logistiche.

    Una delle rotte più rilevanti è quella che attraversa l’Oceano Indiano, a partire dal porto di Guangzhou: passando per lo stretto di Malacca, l’Oceano Indiano, il Golfo di Aden, il Mar Rosso, il canale di Suez, entra nel Mediterraneo da Gibilterra, per poi giungere a Rotterdam. Essa rappresenta solo una delle tante ‘autostrade del mare’ che le portacontainer cinesi percorrono ogni giorno, tracciando la celebre strategia del ‘Filo di Perle’. Questa via è diventata un ‘pivot geopolitico’ di primaria importanza, riscoprendo l’interesse per le teorie marittime di Alfred Thayer Mahan, ammiraglio e geo-stratega statunitense, fautore delle strategie talassocratiche.

    Mahan, oltre un secolo e mezzo fa, identificò nel controllo dell’Oceano Indiano un elemento cruciale per il dominio mondiale. Le sue teorie sottolineano una dinamica circolare: il commercio genera prosperità economica; le basi navali oltremare sono essenziali per sostenere questo commercio; una flotta da guerra robusta è necessaria per difendere tali basi e, di conseguenza, i commerci stessi. Da ciò deriva che uno Stato con un’economia vigorosa deve avere sia accesso al mare, sia una marina potente per proteggere i propri interessi commerciali. Non sorprende, quindi, che la più grande economia mondiale – gli Stati Uniti – disponga anche della marina militare più potente, considerata superiore a tutte le altre flotte globali messe insieme.

    Parallelamente, la Cina ha sviluppato i cosiddetti “porti duali“, come quelli di Sittwe, Chitagong, Hambantota e Gwadar, che svolgono sia funzioni commerciali, che militari. La militarizzazione delle infrastrutture portuali da parte del governo cinese ha una doppia finalità: da un lato, garantire una presenza strategica e bellica in aree chiave come il Mar Cinese Meridionale e lo Stretto di Taiwan, in contrasto con gli Stati Uniti; dall’altro, assicurare la protezione dei propri commerci. Infatti, non solo la Cina, ma anche Paesi NATO e dell’Unione Europea, conducono operazioni militari di contrasto alla pirateria in punti cruciali come lo stretto di Malacca e il Golfo di Aden.

    La grande infrastruttura colonizzatrice

    Partiamo da un presupposto semplice: il know-how infrastrutturale di Pechino è tra i più avanzati al mondo. Con oltre 78.000 km di rete ferroviaria, pari al 6% di quella globale, la Cina è seconda solo all’India per numero di passeggeri trasportati ogni anno sui propri binari. Tuttavia, le capacità infrastrutturali e ingegneristiche cinesi restano nettamente superiori rispetto a quelle dei vicini indiani. La politica di espansione ferroviaria avviata dal Dragone all’inizio del millennio è paragonabile alle rivoluzioni industriali europee dell’Ottocento. In un decennio, Pechino ha realizzato oltre 6.000 km di linee ad alta velocità e sperimentato una delle prime linee a levitazione magnetica, la Maglev, che collega il centro di Shanghai all’aeroporto internazionale di Pudong. Un altro esempio significativo è la linea Pechino-Shanghai, inaugurata nel 2011: in soli 39 mesi sono stati costruiti 1.318 km di ferrovia. Queste immense opere infrastrutturali, tuttavia, non servono solo a trasportare merci e persone, ma anche a rafforzare il controllo politico nelle aree più periferiche del Paese. Un esempio emblematico è la “Ferrovia del Cielo“, che collega Pechino a Lhasa, nel remoto Tibet, con l’obiettivo di consolidare la sovranità su una regione storicamente incline a movimenti indipendentisti, simile alla situazione dello Xinjiang, un altro territorio strategico per le ambizioni imperiali cinesi. Entrambe le aree hanno generato preoccupazioni politiche significative per i leader del Partito Comunista.

    Sin dagli anni Settanta, Pechino ha adottato una strategia simile anche all’estero. Le relazioni con l’Africa e i Paesi della fascia equatoriale riflettono un soft power esercitato attraverso la cooperazione economica e lo scambio di materie prime. Una delle prime testimonianze di questa presenza cinese è la linea ferroviaria TanZam, che collega il porto di Dar es Salaam, in Tanzania, alla città di Kapiri Mposhi, in Zambia.

    Un altro esempio significativo sono le relazioni tra Cina e Sud America dove, come in Africa, Pechino si propone non solo come attore neutro, ma anche come alternativa alle politiche occidentali, le stesse che hanno spesso generato tensioni in queste regioni. In particolare, la Cina punta a trasformare la Colombia nel proprio hub produttivo, logistico e minerario del continente, con il progetto di un canale secco sostenuto da una solida rete ferroviaria, in grado di sostituire il Canale di Panama. Questo progetto non solo collegherebbe la costa atlantica e quella pacifica del Sud America, ma rappresenterebbe una risposta alla strategia talassocratica americana per la quale il Canale di Panama è una delle infrastrutture geostrategiche più rilevanti.

    La presenza cinese in queste aree del globo è ormai consolidata, come dimostrano i dati sul commercio sino-africano: nel 2021, l’interscambio tra Africa e Cina ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, con una crescita annua del 35,3%. Tra il 2007 e il 2020, gli investimenti e finanziamenti cinesi per opere pubbliche e grandi progetti infrastrutturali in Africa hanno totalizzato 23 miliardi di dollari, a fronte dei soli 9,1 miliardi erogati dagli Stati Uniti. Questi ingenti investimenti offrono alla Cina non solo vantaggi economici, ma anche un controllo politico crescente in molti Paesi africani. Attraverso la cosiddetta “trappola del debito” o tramite politiche di scambio vantaggiose, i governi africani si trovano costretti a evitare critiche nei confronti della Cina per le sue politiche interne. Ciò consente a Pechino di allontanarsi dalle frequenti crisi che affliggono il continente africano.

    In sostanza, Pechino ha ormai sostituito le vecchie e decadenti potenze europee, trasformando quello che appare come un progetto di innovazione tecnologica e infrastrutturale in una strategia di dominio culturale e geopolitico su scala globale. L’Occidente sarà pronto a reggere un confronto che vale il mantenimento dell’ordine mondiale?


    [1] P. Sellari, Scenari eurasiatici. Le vie della seta e la proiezione imperiale cinese, Edizioni Nuova Cultura

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