Dopo un anno di conflitto civile, il Sudan sta scivolando verso il collasso. A lanciare l’allarme in occasione del primo anniversario dell’inizio delle ostilità sono le organizzazioni umanitarie attive sul campo. “Nell’ultimo anno ho assistito al mio paese cadere nella violenza, nella follia e nella devastazione – ha dichiarato Elsadig Elnour, direttore di Islamic Relief per il Sudan – mentre il mondo restava indifferente“. Il paese è in preda a una gravissima crisi umanitaria: oltre 8,4 milioni di persone, circa il 16% della popolazione – tra cui 2 milioni di bambini sotto i cinque anni – sono costrette a fuggire sia all’interno del Sudan che oltre i confini.
Il rischio di una carestia di massa è imminente. La guerra, una lotta di potere tra le Forze Armate Sudanesi (SAF), guidate dal Generale Abdel Fattah al-Burhan, e i paramilitari delle Forze di Supporto Rapido (RSF) sotto il comando del signore della guerra Muhammad Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, ha già causato, secondo le stime dell’ONU, oltre 14.600 vittime. Nonostante ciò, la risposta internazionale si è rivelata drammaticamente insufficiente: solo il 5% dei fondi necessari è stato effettivamente erogato, aggravando ulteriormente una situazione già insostenibile. Come se non bastasse, le autorità sudanesi continuano a ostacolare la distribuzione degli aiuti in alcune zone, mentre le RSF saccheggiano ospedali e risorse mediche. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha avvertito la comunità internazionale del rischio di un’escalation di violenza, sottolineando come le fazioni in conflitto stiano armando i civili, e nuovi gruppi armati si stiano unendo alla guerra.
Un conflitto “fantasma”
Nonostante i ripetuti appelli umanitari, il Sudan rimane quasi del tutto ignorato dai media, escluso dalle discussioni globali, che continuano a concentrarsi sui conflitti in Gaza e Ucraina. Finora, i finanziamenti destinati a Kiev dai donatori internazionali sono stati quasi mille volte superiori rispetto a quelli assegnati a Khartoum. Nel tentativo di spezzare questo “muro di silenzio” e cambiare la situazione, la Francia ha organizzato una conferenza internazionale a Parigi, raccogliendo due miliardi di euro. Tuttavia, proprio dalla capitale francese, il dottor Arif Noor, direttore di Save the Children, ha sottolineato le gravi carenze dell’impegno internazionale: “nei primi 100 giorni del 2024 – ha affermato Noor – la cifra raccolta per l’emergenza umanitaria in Sudan è stata meno di un quinto rispetto ai fondi raccolti in soli due giorni per la ricostruzione della Cattedrale di Notre Dame“.
Noor ha definito “scioccante” vedere come, dopo un incendio senza vittime, i donatori siano stati così generosi nel finanziare il restauro della cattedrale, mentre 14 milioni di bambini sono lasciati a se stessi: in balia di un conflitto che alimenta fame e malattie, con le scuole chiuse da più di un anno. Noor, insieme ad altri operatori umanitari, ha invitato i leader mondiali a negoziare direttamente con le parti in guerra, affinché si garantisca il rispetto del diritto internazionale, in un conflitto caratterizzato da gravi e sistematiche violazioni sui civili – inclusi stupri e mutilazioni – specialmente a danno di bambini e giovani.
Dinamiche di conflitto e interessi globali
Affacciato sul Mar Rosso con oltre 600 chilometri di costa, il Sudan ha suscitato l’interesse di tutti i sei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). La sua posizione strategica, considerata come porta d’accesso al continente africano, ha spinto le monarchie del Golfo a rafforzare i rispettivi legami con Khartoum negli ultimi anni, collaborando su temi come il commercio e la lotta al terrorismo jihadista. Tra gli attori più attivi nel paese ci sono gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e l’Arabia Saudita. Nel 2019, dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir a seguito di una rivolta popolare e un colpo di stato, Abu Dhabi e Riyadh hanno deciso di sostenere il nuovo governo sudanese con un finanziamento di 3 miliardi di dollari per garantire la stabilità e facilitare una “transizione pacifica”. Nel 2022, gli Emirati hanno incrementato i loro investimenti, destinando 6 miliardi di dollari per costruire il porto di Abu Amama – un’alternativa a Port Sudan – e per sviluppare l’agricoltura intorno alla città di Abu Hamad. Riyadh, invece, ha investito 3 miliardi di dollari nei settori minerario, infrastrutturale e agricolo.
Tuttavia, l’iniziale cooperazione tra Emirati e Arabia Saudita ha presto lasciato spazio a una competizione crescente, trasformando il Sudan in un campo di confronto tra le due potenze del Golfo, soprattutto in seguito all’avvicinamento degli Emirati alle Forze di Supporto Rapido (RSF). La stretta collaborazione tra Abu Dhabi e il leader delle RSF, Hemedti, è nata da una convergenza di interessi sviluppatasi nel tempo. Con lo scoppio del conflitto a Khartoum, gli Emirati e l’Arabia Saudita si sono difatti ritrovati su posizioni divergenti. Riyadh ha cercato di mediare tra le fazioni, pur continuando a sostenere il generale al-Burhan, mentre Abu Dhabi ha intensificato il suo supporto alle RSF, fornendo armi attraverso le frontiere libiche. Secondo il panel di esperti delle Nazioni Unite sul Sudan, gli Emirati avrebbero rifornito le RSF di armi e droni tramite il Ciad, la Libia e la Repubblica Centrafricana, violando l’embargo ONU.
I legami tra Emirati e Hemedti, però, non si limitano alla fornitura di armi. Il Sudan, sedicesimo produttore mondiale di oro e quinto in Africa, è al centro di una redditizia rete di estrazione del metallo prezioso. Le RSF hanno utilizzato questa rete per finanziare le loro operazioni, vendendo oro sui mercati internazionali. Questo traffico, iniziato prima della guerra, ha arricchito figure politiche e militari sudanesi e ha coinvolto gli Emirati e il gruppo Wagner, ora chiamato Africa Corps. Mentre Hemedti e le RSF contrabbandano oro verso gli Emirati in cambio di armi, la Russia utilizza i proventi dell’oro per finanziare il conflitto in Ucraina.
Grazie a questo traffico illecito, Hemedti, che controlla le principali miniere d’oro del Sudan, è diventato uno degli uomini più ricchi del paese. Riyadh, dal canto suo, ha cercato di assumere un ruolo di mediatore imparziale, sostenendo al-Burhan dall’inizio della guerra. L’approccio saudita è stato motivato soprattutto dall’intento di migliorare la propria immagine internazionale attraverso il dialogo tra RSF e SAF. Mentre l’Arabia Saudita adotta una linea più pragmatica, puntando sulla diplomazia, l’atteggiamento più aggressivo degli Emirati potrebbe deteriorare i rapporti con Riyadh, soprattutto nel caso in cui gli interessi emiratini e le azioni delle RSF dovessero ostacolare gli sforzi negoziali sauditi, che finora però non hanno prodotto risultati concreti. Salvo sporadici e spesso violati cessate il fuoco.
La fame è quasi ovunque
Il 15 aprile 2023, dopo lo scoppio dei combattimenti a Khartoum e la rapida diffusione della violenza nel Darfur occidentale, alcuni analisti speravano che il conflitto potesse essere circoscritto. Gli ottimisti ipotizzavano che, come accaduto nelle precedenti guerre in Sudan, le due fazioni si sarebbero presto trovate in una situazione di stallo, costrette a negoziare un’intesa per condividere il potere. Un anno dopo, però, è chiaro che la situazione ha preso una piega diversa: il conflitto si è frammentato in molteplici scontri locali che coinvolgono molte delle 18 province del Sudan. Questi conflitti, intrecciandosi con il complesso quadro etnico del paese, hanno finito per coinvolgere varie milizie e gruppi ribelli, spesso sostenuti da attori esterni.
Dal momento che nessuna delle fazioni riesce a infliggere una sconfitta decisiva, sia le SAF che le RSF hanno iniziato a frammentarsi, dando vita a sottogruppi ribelli con obiettivi e interessi distinti. In questo scenario, nessuna fazione sembra attualmente in grado di ristabilire il controllo sull’intero territorio sudanese. Dopo un anno di guerra, il paese è testimone di una crescente militarizzazione delle comunità locali: una tendenza, questa, che appare difficile da invertire nel breve termine.
Il Sudan, già devastato dalla violenza, è ora minacciato anche dal rischio di carestia: secondo l’ultimo rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), la malnutrizione acuta potrebbe colpire gran parte del paese entro la fine dell’anno, causando la morte di mezzo milione di persone. Nel peggiore degli scenari ipotizzati dal Clingendael Institute, le vittime potrebbero arrivare a un milione.
A causa del conflitto, nel 2023 gran parte del Sudan, in particolare la regione del Darfur, non ha potuto procedere con i raccolti. Le organizzazioni internazionali hanno quindi segnalato numerosi ostacoli, tra cui il controllo totale da parte dei gruppi armati su ciò che entra ed esce dalle aree sotto la loro influenza, con l’appropriazione indebita delle riserve alimentari per la vendita sul mercato nero. Al momento le prospettive di un intervento che possa salvare il paese dal precipizio sono esigue e si concentrano sui colloqui in corso al Cairo per raggiungere un cessate il fuoco.
A un anno dall’inizio del conflitto tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), non si intravedono soluzioni alla crisi. I vari tentativi di mediazione non hanno prodotto risultati concreti: presenti solo brevi cessate il fuoco, spesso violati. Le conseguenze sulla popolazione sono state quindi devastanti: oltre 8,5 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case dall’inizio degli scontri.
La guerra civile ha evidenziato come le dinamiche del conflitto sudanese siano profondamente influenzate dagli interessi di attori esterni e abbiano ripercussioni che vanno oltre i confini del paese. Mentre l’attenzione globale è concentrata sulla Striscia di Gaza, anch’essa alle prese con una grave crisi umanitaria causata dalla guerra, il Sudan si sta avvicinando a un disastro umanitario di portata storica, nell’indifferenza generale.