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    USA, Donald è il ‘trumpolino’ di lancio verso l’età dell’odio

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    Donald Trump sarà il 47° Presidente nella storia degli Stati Uniti, il più anziano di sempre. Sarà anche il primo con una condanna penale: ma quanti altri record riuscirà a battere, o meglio ad abbattere, nei prossimi 4 anni di presidenza? Probabilmente più di uno.

    Quanto giunge dalle elezioni d’oltreoceano è stato da molti accolto, senza fare certo di tutta l’erba un fascio, un pò come si accoglierebbe il vincitore di Sanremo. E questo è il primo fatto rilevante. Non si può infatti non dare anzitutto ragione agli abbrutiti elettori del Midwest, del Dixieland, delle Rocky Mountains e a tutti coloro che non perdono l’occasione di definire noialtri del Vecchio Continente come assonnati, passivi, indifferenti. Ed è proprio nell’indifferenza che si può individuare la prima delle molteplici ragioni per cui ad oggi dobbiamo avere paura: per decenni si è sottovalutato il crescente disinteresse per la cosa pubblica e, al momento, in una società sempre più banalizzante e confusamente polarizzata, l’inversione di rotta appare quantomeno complessa.

    Una narrazione distorta

    Con tutte le ovvie e intuibili differenze, è però bene prima concentrarsi sulla confusione non poi troppo diversa che si respira entro i confini statunitensi. Persino chi sembra avere le idee chiare il più delle volte si ritrova ad argomentare queste con lo stesso grado di approfondimento rinvenibile nei poco eleganti attriti pre-derby. Sono costruzione e conseguente derisione del nemico a definire, finanche plasmare, la propria identità. In ciò la comunicazione di Trump ha indubbiamente brillato: nessuna proposta che non contempli un nemico da distruggere, alcuna esaltazione che non parta dalle presunte mancanze altrui. La rabbia e la paura, addirittura maggiori del 2016, sono il terreno fertile sul quale il magnate americano è riuscito a coltivare, nuovamente e senza scrupoli. Rispetto alla prima elezione, per Trump è stato infatti possibile sbottonarsi ulteriormente, come se dopo Capitol Hill tutto gli fosse concesso. Questo ha ancor più permesso di toccare alcune corde precedentemente rimaste immobili e divenute ora utili per rinsaldare un’orchestra già di per sé potente e rumorosa. Dagli haitiani che mangiano gatti e cani ai Dem che ammazzano i bambini, il nuovo Presidente ha messo in campo un’immaginazione da fare invidia a George Orwell. Peccato che si stia scrivendo la storia, non un racconto.

    Del resto si sa, quando una fase della storia ha inizio partendo da una narrazione distorta, gli sviluppi successivi devono quantomeno generare paura. Una paura non paralizzante, si spera. Come ben ci insegna un eterno Umberto Eco, la costruzione del nemico è sempre stata alla base di una certa retorica, quella volta ad assicurarsi il potere, forgiando una nuova identità o restaurandone una in evidente decadimento. Gli Stati Uniti in questo hanno da sempre dimostrato una notevole abilità: demolito il nemico sovietico, è stato Bin Laden a favorire un rafforzamento identitario. L’importante è che il nemico sia brutto e diverso, alla plasmazione di una concreta minacciosità ci penserà poi la fantasia. Si badi bene, nessuna sovrapposizione tra i ‘poveri’ haitiani e il ‘Principe del Terrore’, ma solo una delineazione del chiaro modus operandi da sempre attuato nei periodi di smarrimento. Talvolta il nemico è più facile da costruire, altre meno, l’importante però è che alla fine consenta una contrapposizione tra i rispettivi valori e modi di vivere. Bene, in un pianeta allo sbando il tycoon ha ben compreso la strada più semplice da percorrere. Il risultato è magistrale: per la prima volta dal 2004 i repubblicani hanno vinto anche nel voto popolare. L’ultimo a riuscirci, indovinate un pò, fu proprio il buon George Bush, che, per quanto diverso, condivide con Trump l’innata capacità di costruire l’identità del nemico, quasi dimenticandosi della propria.

    L’età dell’odio

    Quanto si dice non corrisponde necessariamente a quanto si farà: questa non è solo una grande costante di buona parte della politica mondiale, ma anche un ottimo sunto dei primi 4 anni da Presidente di Donald Trump. A dirlo non è l’autore di questo editoriale, bensì la realtà dei fatti. Gli obiettivi, per certi versi impossibili, posti nella precedente campagna, sono rimasti perlopiù irrealizzati. È vero, gli States grazie al protezionismo della sua amministrazione hanno sperimentato una crescita economica oggettiva. Ma poi? Anzitutto, è bene segnalare un crescente aumento di disuguaglianze e tensioni, ulteriormente inasprite dalla malagestione del Covid. Inutile dire che ciò ha reso l’America meno sicura, alimentando scontri e divisioni interne. Alla faccia dei costanti richiami a stabilità e sicurezza. Per altro l’Obamacare, la riforma che aveva permesso a 32 milioni di americani in più di ottenere tutela dal sistema sanitario nazionale e che Trump aveva promesso di eliminare, è rimasta là, intatta ed effettiva. Ci sono poi tante figuracce in fila: dal muro a spese del Messico (pagato in realtà al 100% dal Pentagono), passando per la resa pubblica della propria dichiarazione dei redditi, promessa e mai attuata, fino al ritorno in patria delle aziende USA, anche qui senza particolare successo. Ultima, non certo per importanza, la posizione sul cambiamento climatico, definito con estrema leggerezza e a più riprese “una fantasia”. Insomma, di chiacchiere ne ha fatte tante e non serve un’approfondita analisi per rendersene conto.

    C’è però un ambito, ancora non menzionato, in cui ‘Deranged Donald’ si è rivelato “di parola”, quello della politica estera. Ed è qui che, con umiltà e profondo rispetto, sento di dover dissentire dall’analisi di numerosi e illustri esperti di geopolitica, italiani e stranieri, che hanno cercato di rassicurare tutti con la solita interpretazione per cui la politica estera di una grande potenza generalmente non subisce mutazioni repentine e irregolari. Nello specifico, manifesto tale dissenso sulla scorta di quanto accaduto nel corso della prima amministrazione, durante la quale Trump tenne perlopiù fede alle pericolose promesse fatte. La strategia del pugno duro contro i principali avversari del tempo, Cina e Iran fra tutti, ha acutizzato i rapporti, isolando il Paese e destabilizzando significativamente lo scacchiere internazionale. Ad oggi lo scenario è indubbiamente più complesso e, come agevolmente riscontrabile, il rischio di escalation è aumentato in più zone del mondo. Quindi cosa aspettarsi da un signore cui Zelensky ha felicemente ricondotto l’approccio “pace attraverso la forza”? Ebbene, una risposta vera non c’è, e il pericolo è proprio questo. Per il momento, dobbiamo accontentarci dell’ennesima promessa del neopresidente: “Questa sarà l’età dell’oro in America”. Anche questa volta, però, non ci si dovrà sorprendere qualora non venisse mantenuta.

    Guardarsi dentro

    Attualmente sarebbe soverchio concentrarsi sugli errori dei dem in generale, di Harris & Co nello specifico. Né tantomeno sarebbe utile sistematizzare il fallimento dell’ala progressista, per contesto e composizione non sovrapponibile a quella europea: di sprovveduti parallelismi ne leggiamo infatti già tanti. A servire urgentemente è invece un ampio lavoro di autocritica cui gli Stati membri dell’Unione Europea, veri detentori dell’indirizzo di quest’ultima, sono chiamati. È necessaria una riformulazione dell’ordinamento comunitario, non sufficientemente pervasivo e quasi mai efficacemente indipendente. Tutto ciò partendo da una politica economica comune, che, come già dimostrato a più riprese nelle recenti recessioni, rappresenta la soluzione più efficace per fronteggiare le difficoltà che verranno. Sarebbe però auspicabile muoversi d’anticipo, diversamente da quanto fatto finora. Stesso approccio per una difesa militare comune e così via per tutti quegli altri settori che, se investiti da una reale unitarietà, potrebbero rimettere in sella sul più veloce dei cavalli un soggetto attualmente amorfo e scarsamente incisivo in relazione alle sue potenzialità. La realtà è che la filosofia funzionalista ha subito nell’ultimo decennio un’innegabile battuta d’arresto in sede di applicazione. Non c’è più tempo per aspettare. La nobile ambizione di favorire una graduale integrazione fra Stati, con l’implicita direzione verso la plasmazione di uno Stato federale, appare ora arrancare dietro fatti e vicende che si rincorrono troppo velocemente.

    L’Europa deve comprendere, ora e subito, che la sua esistenza è messa a dura prova e che, senza una stretta immediata, le prospettive si restringeranno in maniera esponenziale. Solo con un intenso lavoro interno e un concreto intento federativo sarà possibile giocare un ruolo chiave nei futuri equilibri mondiali. Diversamente, si lascerà il posto alle grandi potenze di oggi e, soprattutto, a quelle di un domani ogni giorno più vicino.

    La non-reazione del Vecchio Continente

    Siamo fermi, immobili. Osserviamo, commentiamo e dimentichiamo. Ci rinchiudiamo in noi stessi, senza il coraggio e la forza di riconoscere l’evidente degenerazione che ci circonda. Puntiamo il dito, giudichiamo, non ascoltiamo. E se ascoltiamo, non capiamo. Così come l’elettorato americano, non ricordiamo, affidandoci alle star, ai politicanti, a quelli che la fanno facile. Pretendiamo sicurezza, ma abbracciamo la violenza, cerchiamo qualcuno che ascolti le nostre esigenze, ma non siamo disposti a fare lo stesso. Non abbiamo coscienza, civile prima, politica poi, perché a mancare è anzitutto il senso storico. Addirittura, abbiamo perso il senso antropologico dell’azione. Siamo talmente passivi da votare il cambiamento del purché si cambi, così da vedere qualcosa nell’immediato, qualunque cosa sia. Lasciamo che gli altri agiscano per noi e non ci fidiamo di chi ci dice che all’agire va anteposto un pensiero solido, costruito e condiviso. In tale scenario imperversa la violenza, perché si sa, distruggere è più facile che costruire. Del resto è tutto chiaro, nell’era dei ‘fuffa guru’ e dei quaquaraquà, la strada più facile è sempre la più attraente. Pensiamo di mettere il mondo a posto a suon di insulti, bombe e frasi ad effetto, cerchiamo di comprimere in poche parole il senso della politica, finanche della vita. Banalizziamo, proprio come fa l’uomo che guiderà la potenza numero uno al mondo per la seconda volta. Continuiamo a sentirci migliori, intellettualmente superiori alle stesse popolazioni che per secoli abbiamo depredato, affossato. E ad oggi abbiamo persino il coraggio di indicarle come attentatrici della nostra stabilità. Ci sentiamo individui prima che cittadini, cittadini prima che esseri umani. Non amiamo noi stessi e non sappiamo amare gli altri.

    La sostanza è che in un mondo frammentato e sempre più diviso si è aperto un bivio: da un lato l’impervia strada del dialogo, della tolleranza, dell’integrazione; dall’altro quello della violenta e incurante semplificazione, pronta a desertificare il decadente, ma ancora in vita mondo che ci ospita. La palla, ancora una volta, passa a noi tutti.

    Sono tempi bui.

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