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    La moda è una questione politica

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    Oggi, chiunque pensi che la gestione della res publica si limiti a direttive europee da recepire, bilanci d’esercizio da far quadrare e scartoffie burocratiche da delegare al proprio Gabinetto si sbaglia di grosso. Se è vero che la partecipazione elettorale ha subito – e sta ancora subendo – un vertiginoso ribasso quantitativo, tutto ciò che è “di massa” continua inesorabilmente a splendere. Lo scenario a tratti pare surreale: pressoché deserte le urne nei giorni del voto, chilometriche le code all’entrata dei centri commerciali in qualsiasi stagione dell’anno.

    Molti gli zeri che traslano dai conti bancari degli italiani alle multinazionali del settore moda. Che fare allora, o meglio, che cosa andrebbe fatto? Più facile a dirsi che a farsi, quantomeno senza commettere errori grossolani: sfruttare il trasformismo tanto caro alla politica moderna facendo tappa nei luoghi dove quella folla – di cui parlava Gustave Le Bon – soggiorna. Detto in termini spiccioli, fare politica occupandosi di moda, quotidianamente. Specie se il calendario rammenta l’avvento del Black Friday.

    Gli esordi

    Anni e anni di strabismo politico e istituzionale ci hanno tramandato un mondo diviso in blocchi, assolutamente impermeabili tra loro: destra o sinistra, bianco o nero, giusto o sbagliato. La risolutezza e la concretezza per il genere maschile, la frivolezza e la vacuità per quello femminile. Allo stesso modo, varie leggende metropolitane vogliono che la donna (e solo essa) sia avvezza alla ricercatezza, allo stile, al lusso; tutte componenti che, con poca sorpresa, fanno capolino nel made in Italy. Niente di più sbagliato: stante il profondo mutamento di cui siamo parte integrante, l’avanzata per mezzo di compartimenti stagni assicura nient’altro che una dolorosa caduta nel burrone sociale. In aggiunta, agli untori di narrazioni articolate secondo la rigidità intellettuale di cui sopra dispiacerà prendere atto che la moda italiana, così come il prestigio di cui quest’ultima gode in tutto il mondo, è tale grazie ad un’intuizione maschile. Una visione precorritrice che oggi farebbe invidia a molti operatori del settore. Per scoprire chi, dove e quando è necessario andare con ordine.

    Riavvolgiamo il nastro e torniamo laddove tutto ebbe inizio: Milano, anni ’80. Abbiamo già trattato alcuni aspetti relativi a quest’ultimo periodo storico e, no, nessuno di noi rimpiange i tempi andati. La questione è più complessa: l’Italia che conosciamo oggi, con i suoi vizi e le sue virtù, nasce esattamente in quell’Eden colma di eccessi e sregolatezze, fucina di innegabile trasformazione.

    Gli anni del craxismo

    Archiviata la strage avvenuta alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, si avviò un’esistenza diversa, guidata da quattro stelle polari: la leggerezza, il divertimento, l’ambizione e la carriera. Considerata l’impostazione binaria per mezzo di cui la nostra attività cerebrale è modellata, veniamo ora a definire meglio il contesto in cui siamo calati. Le luci e le ombre di cui trattiamo sono quelle della “Milano da bere”: un ‘bengodi’ incosciente ed utopistico, l’anticamera di un nuovo boom economico tanto formidabile da dare successivamente i natali allo scandalo Tangentopoli. Quella Milano che tutti credevano prossima ad una formidabile crescita vedeva brulicare nel proprio sottobosco una discreta voglia di rivalsa sulla Capitale, in seguito capitalizzata da figure quali Silvio Berlusconi e Bettino Craxi. Due uomini molto diversi tra loro, per educazione ricevuta e per posizioni ideologiche, accomunati dal vigore con cui ambedue prendono contezza di quella mutazione antropologica che già Pier Paolo Pasolini aveva pronosticato.

    Sono questi gli anni in cui l’Italia cambiò pelle ad un ritmo vorticoso, il tradizionalismo venne confinato al dimenticatoio e il capitalismo si impiantò nel nostro tessuto connettivo, rivoluzionando la corporeità e l’intelletto. Ecco spiegato perché, persino gli angoli più remoti della nostra esistenza, vennero letti mediante il filtro della spettacolarizzazione e del profitto. L’individualismo e il voyeurismo facevano sembrare più agevole la strada verso la felicità, ora incarnata dal binomio usa e getta, valido tanto con le persone quanto con la pura materialità degli oggetti. Complice l’esplosione della televisione a colori, l’apparenza offerta dagli spot pubblicitari prese il sopravvento sull’essenza, definita saldamente dal processo di socializzazione. Si affermarono così nuovi miti e valori che solo la città meneghina – paladina del successo a portata di mano e simbolo dell’economia priva di scrupoli – riuscì a veicolare perfettamente.

    L’alta moda come volano

    Benché l’intreccio tra moda e politica non sia affatto nuovo, in pochi sanno che quest’ultimo sussiste in virtù di quella messa in vetrina inaugurata dal PSI di Craxi il quale, nel frattempo, aveva affidato a Filippo Panseca il compito di svecchiare l’immagine del partito precorrendo i tempi del marketing, allora giudicato frivolo e totalmente secondario. L’esigenza era chiarissima: acquisire consenso ponendosi alla pari dell’operaio e della donna di provincia, mandando in frantumi quell’aura elitaria orbitante tanto attorno al PCI quanto alla DC. Impresa, quest’ultima, non semplice da attuare considerando la discrasia esistente tra l’innovazione dei grandi centri urbani e la perenne staticità dei piccoli borghi. Altro aspetto da non trascurare è la diffidenza dei veterani: basti pensare che quando Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica, convocò Craxi al Quirinale, quest’ultimo si presentò in giacca, cravatta e jeans, al che Pertini lo rispedì a casa invitandolo ad indossare un completo scuro “o di non scomodarsi a tornare”.

    Fu lo stesso progressismo di matrice craxiana ad accorgersi dei benefici ottenibili interloquendo con gli stilisti allora nascenti. Questa la cornice in cui decollò la moda così come tutti la conosciamo: Giorgio Armani diventò famoso con American Gigolò, mentre Cerruti, Ferragamo e Versace producevano capi richiesti in tutto il mondo. Il commercio legato all’haute couture movimentava gli indici di Borsa, le sfilate di moda attiravano personalità dai profili più variegati, dagli imprenditori ai politici. Milano si riempì di giovani ambiziosi di fare dell’immagine la propria ragione di vita. Improvvisamente, essere al posto giusto con le persone giuste iniziò a contare molto più di qualsiasi titolo accademico. Purtroppo, però, le cose non sono andate effettivamente come previsto: l’elitarismo imputato agli ambienti della ‘Milano che conta’ fu contrastato soltanto in parte, e l’ostentazione del prestigio insito nella posizione sociale divenne la nuova religione di Stato. Insomma, quella forza centrifuga apparentemente avviata per rompere le barriere tra classi fu più percepita che reale. 

     Gli anni duemila

    Alla resa dei conti, comunque, di quegli anni sfarzosi non ci possiamo lamentare del tutto: il contrappeso tra dare ed avere, il do ut des di romana memoria è evidente; alla lottizzazione dei più disparati comparti della vita pubblica, seguì un valore aggiunto per l’Italia – che proprio in questo periodo divenne la quarta potenza mondiale – e il suo percepito pubblico. 

    Lo stesso non si può dire dei decenni successivi: di lì a poco, la crescita iniziò drasticamente a rallentare e quella nebbia prima invisibile, come d’incanto, tornò presente, dimostrando di non essere mai andata via. A Wall Street avvenne il più grande crollo economico della storia e il Dow Jones perse il 22%, mentre la scena politica conosciuta smise definitivamente di esistere. Sul fronte sociale, la vita divenne via via sempre più confusa, preda della vacuità del momento, arida di ogni tipo di ancoraggio ideologico e valoriale. Iniziò silenziosamente ad attecchire uno stile definito fast-food, un mordi e fuggi che – a torto o a ragione – non ha fatto altro che rafforzare l’autorevolezza dei potenti e delle multinazionali attive. 

    Inevitabilmente, anche il mondo della moda venne riscritto: gli alti costi di produzione non riuscirono a tenere testa alla rapidità dell’esistenza e al susseguirsi incessante delle collezioni, sempre più svincolate dalla rotazione stagionale. Molte aziende furono dunque costrette alla delocalizzazione alla ricerca di manodopera a basso costo, e persino il made in Italy subì un radicale subappalto. A rimetterci, chiaramente, furono le tasche e i contratti dei dipendenti, trattati al pari di oggetti di largo consumo.

    Ed è proprio rispetto a quest’ultimo punto che vale la pena spendere ancora qualche parola: sospinto dalla globalizzazione, a mutare irreversibilmente fu anche l’approccio dei consumatori i quali, influenzati da pletore di beniamini virtuali, oggigiorno fanno acquisti in modo spasmodico e senza porsi alcun tipo di interrogativo costruttivo circa l’etica di quanto si ritrovano per le mani. Addirittura si accalcano nelle cattedrali del consumo con l’intento di differenziarsi, per poi mettere a terra un grado di eterodirezione tutt’altro che invidiabile ed essere travolti dalla stessa tirannia dell’acquisto rapido e distratto. Situazioni, queste, perfettamente inquadrabili nelle parole di Nicolás Gómez Dávila: “la libertà a cui aspira l’uomo moderno non è quella dell’uomo libero, ma quella dello schiavo nei giorni di festa”. 

    Il fast fashion e il ruolo della politica 

    E la politica, in tutto questo, cosa fa? Rimane inerme, quasi incredula dell’avanzata impetuosa del fast fashion, di cui sottovaluta gli impatti sull’ambiente e sui diritti. Accetta di buon grado che colossi come Shein prevedano per i propri dipendenti turni settimanali di 75 ore. Nei casi peggiori, incentiva la bassa qualità dei prodotti illudendosi che quest’ultima possa finalmente risollevare l’economia. Va detto che, finora, l’unica conseguenza attestata è data dalla seguente trade union: crollo dell’economia di quartiere, inquinamento schizzato ai massimi livelli e profondo malcontento sociale

    Se questi sono i risultati preventivati dalla classe politica, siamo effettivamente sulla buona strada. In caso contrario, è forse opportuno spalancare gli occhi evitando di rinchiudersi in una torre d’avorio fatta di belle parole e pochi fatti.

    A cura di

    Fiammetta Freggiaro (Vicedirettrice editoriale vicaria)

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